Si inizia con una scena bucolica: una famiglia piuttosto numerosa (cinque figli, due maschi e tre femmine, di cui l’ultima piccolissima) sta facendo un picnic e un bagno in riva a un fiume in una bella giornata d’estate. A fine giornata, quando ormai si è fatto buio, gli Höss tornano nella loro bella casa per iniziare il giorno dopo una nuova settimana di lavoro (per il padre), di scuola (per i figli), e di gestione della casa e della figlia piccola (per la madre). Eppure un’inquietudine profonda ci attraversa fin dai primi minuti mentre osserviamo la vita di questa “normale” famiglia tedesca degli anni Quaranta.
Lo stato di inquietudine ce lo ha già suggerito il regista Jonathan Glazer facendo iniziare il film con uno schermo nero sul quale per lunghissimi secondi sono montati dei suoni che non sono una musica, ma non sono nemmeno strettamente suoni umani. Qualcosa che spiazza e ci mette a disagio.
Lo stato di disagio si amplifica man mano che la storia va avanti e si capisce che il comandante Höss dirige il campo di concentramento di Auschwitz e la sua casa confina con il lager, anzi ne condivide il muro di cinta, dove sua moglie sta cercando di far crescere piante e fiori per nascondere il grigio cemento.
La vita degli Höss è quasi una vita modello, la famiglia tedesca “perfetta” come poteva apparire nelle pubblicità di quegli anni, salvo che questo quadro così pulito e nitido – come Glazer cerca di sottolineare anche cinematograficamente – mostra abbastanza presto delle crepe, degli elementi dissonanti, delle incongruenze. La tranquilla vita degli Höss si svolge su un fondo sonoro che è fatto di rumori, spari, grida, che si percepiscono distintamente ma in lontananza. Dietro il muro – nelle riprese più ampie – si intravedono le ciminiere e i fumi che emettono. Durante la notte, il cielo si accende di rosso e l’odore che si diffonde è nauseabondo, anche se non tutti sembrano farci caso. La natura non è così bucolica come appare: il fiume in cui il comandante sta pescando e i figli stanno facendo il bagno viene invaso da una marea di cenere; i campi in cui fanno la loro passeggiata a cavallo sono battuti dalle SS all’inseguimento di gente in fuga o nascosta tra le frasche. Hedwig (la sempre più straordinaria Sandra Hüller) riceve "misteriosamente" a casa oggetti (vestiario e altro) che in parte tiene per sé, in parte “regala” a governanti e baby sitter. I figli giocano nel giardino e in piscina da soli o con altri bambini, tra giochi normali e altri più strani, che tradiscono una strisciante inquietudine che cozza con la presunta normalità della situazione.
Di tanto in tanto durante la narrazione della vita degli Höss, le immagini vengono risucchiate nello schermo (nero, rosso o bianco a seconda dei casi) quasi a segnare delle pause di riflessione, e talvolta, durante la notte, le immagini in positivo si trasformano in strane immagini in negativo (tipo girato notturno a infrarossi) la cui protagonista è una ragazza che porta delle mele o delle pere da qualche parte (capiremo poi dove).
Il trasferimento del comandante Höss (molto bravo Christian Friedel) a Oranienburg mette in crisi il quadro familiare idilliaco, ma come accadrebbe in qualunque famiglia: Rudolf insegue le sue ambizioni lavorative e la sua carriera, mentre Hedwig vuole rimanere con i figli nella casa che si è costruita con tanto amore e dove sta crescendo i suoi bambini.
La zona di interesse è il nome tecnico che veniva dato all’area che si estendeva intorno ai campi di concentramento nazisti. Ma in questo caso la zona di interesse può significare tante altre cose. Ognuno dei personaggi della storia raccontata da Glazer (ispirandosi al romanzo di Martin Amis) si chiude nella propria zona di interesse, concentrando le proprie emozioni e il proprio sguardo solo all’interno di essa, e tagliando fuori tutto il resto. Vale per Rudolf, per Hedwig, per i figli (per quanto parzialmente inconsapevoli), e per tutte le persone che gli ruotano intorno.
Ma Zone of interest non è solo un anomalo film sull’Olocausto, in cui l’orrore si materializza potentissimo senza vedere mai quello che accade all’interno del campo di concentramento, bensì è un film sull’essere umano e forse anche un film sul presente.
Guardandolo mi sono ricordata una cosa che racconto spesso della mia esperienza di persona andata via dal suo paesello per vivere in una grande città: dopo un po’ di anni che vivevo a Roma, in occasione della visita di persone della mia famiglia che ancora vivono al paesello, ero rimasta ‘stupita’ dal fatto che loro erano colpiti e non indifferenti alla presenza dei mendicanti per strada e alle cose più o meno anomale e più o meno brutte che accadono nelle strade della città, mentre io quasi non le vedevo più, concentrata sulla mia vita quotidiana, sulle mie cose, sulla mia sopravvivenza.
Senza che questo suoni come una giustificazione, penso che l’essere umano abbia una soglia di assuefazione, superata la quale cose che fino a un certo momento ci colpivano emotivamente diventano un “rumore bianco”, un rumore di sottofondo che finiamo per non sentire/vedere più (non a caso nel film, l’unica persona che va via all’improvviso senza dare spiegazioni è la madre di Hedwig che è venuta a trovare la figlia, ma che non riesce a convivere con l’orrore che vede e sente oltre il muro).
Ebbene, se applichiamo al nostro presente questa riflessione, un presente nel quale siamo continuamente bombardati di orrore, nel quale i media e soprattutto i social media fanno a gara per attirare la nostra attenzione alzando continuamente l’asticella emotiva e puntando alla profondità delle viscere delle persone, c'è da chiedersi: quanto è forte il “rumore bianco” nel quale viviamo e di cui non ci accorgiamo? Quanto siamo diventati e diventeremo sempre più indifferenti a quello che accade intorno a noi? Esiste un antidoto a tutto questo?
Perché è evidente che non basta l’indignazione, che non basta la consapevolezza, non basta la razionalità, perché poi alla fine le nostre vite devono andare avanti e, anche se non siamo direttamente responsabili del male inferto ad altri (nemmeno Hedwig lo è), non siamo molto diversi dalla famiglia Höss.
Non scomoderei la parola “capolavoro” come molti hanno fatto, ma Zone of interest è un film che resta scolpito negli occhi e nella mente dello spettatore.
Voto: 4/5
Questo film è autentico fumo negli occhi, vi ha abbindolato tutti. Boh, contenti voi.
RispondiEliminaE vabbè, pazienza. Non è una tragedia...
EliminaOttima recensione, che mi trova assolutamente d'accordo. A me la cosa che più ha stupito (e inquietato) del film è il grande lavoro sugli effetti sonori, quel tremendo rumore "fuori campo" che non ti abbandona mai...
RispondiEliminaGrazie Sauro! Eccezionale il lavoro sul sonoro!
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