Pur avendo diretto diversi film, per me il nome di Andrew Haigh è legato a un film che ho amato particolarmente, Weekend, una specie di distillato di una storia d'amore, concentrata tra le quattro mura di un appartamento nel tempo limitato di un fine settimana, l'incontro tra due sconosciuti che in un weekend riescono a condividere quanto in altre circostanze potrebbe richiedere anni o non accadere mai, ma che alla fine rimane confinato in quello spazio e in quel tempo e forse proprio per questo funziona.
A distanza di più di 10 anni da quel film (nel mezzo ce ne sono stati altri per me meno memorabili) mi fiondo al cinema Troisi (dove a presentare il film c'è Jonathan Bazzi) a vedere il suo All of us strangers = Estranei, che sembra in parte richiamarsi a Weekend nel parlarci anche in questo caso dell'incontro di due uomini soli, Adam (Andrew Scott) e Harry (Paul Mescal).
Durante la visione capisco però che, nonostante i punti di contatto, siamo lontani da quel film e che con All of us strangers Haigh ci conduce in territori inesplorati, misteriosi e sfuggenti.
Adam vive in un grande palazzo ai confini di Londra, sta scrivendo una sceneggiatura ambientata nel 1987, ma fa fatica a procedere nella scrittura, trascinandosi nel suo appartamento in preda a un'inerzia che confina con la depressione e a un profondo senso di solitudine.
Un giorno, uscendo dall'edificio dove vive poiché è scattato l'allarme antincendio, si accorge che nel suo palazzo - incredibilmente deserto - solo una finestra è accesa e c'è un uomo che lo osserva dall'alto. Si tratta di Harry che va a bussare alla sua porta, piuttosto sbronzo e con una bottiglia di whisky in mano, in cerca di compagnia. Adam non lo fa entrare. Nei giorni successivi comincia ad aprire scatole con ricordi della sua infanzia, probabilmente alla ricerca di ispirazione, e dopo aver visto la foto della casa dove abitava con i suoi genitori, morti in un incidente stradale quando lui aveva 12 anni, decide di tornare lì. Sorprendentemente in quella casa i suoi genitori abitano ancora, cristallizzati com'erano prima di morire, e volenterosi di conoscere il figlio che hanno perduto e capire cosa è diventato. Dopo questa prima visita, Adam torna più volte a trovare i suoi genitori, avviando un dialogo che gli è mancato a causa della perdita, e al contempo - in seguito a un nuovo, fortuito, incontro con Harry - inizia una storia con quest'ultimo. Da qui la vicenda evolverà in direzioni imprevedibili e misteriose, fino al sorprendente - e forse catartico - finale.
In All of us strangers - liberamente ispirato al romanzo Strangers del giapponese Yaichi Tamada (e la giapponesità secondo me si vede tutta) - il confine tra il reale e il soprannaturale è molto labile, e - tenendo conto che il protagonista è spesso in uno stato di alterazione, una febbre che lo accompagna per quasi tutto il film, nonché in un trip da ketamina - l'onirico, l'immaginato, il desiderato dialogano continuamente con la realtà.
Esco dal cinema un po' delusa e dicendo che ho fatto fatica a immedesimarmi emotivamente con il protagonista. Mentre mi si annunciavano grandi pianti, io non sono invece riuscita a empatizzare e a sentire su di me le forti emozioni che attraversano il film. Poi, chiacchierando con le mie amiche all'uscita e ancora il giorno dopo con un altro amico che l'ha visto contemporaneamente a me, tutta una serie di elementi si sono sedimentati e la mia percezione è cambiata. Anche i sentimenti e le emozioni sono arrivati a scoppio ritardato, forse perché lì per lì me ne sono quasi difesa.
Ho così cominciato a sentire lo stato psicologico di quest'uomo, il cui sviluppo emotivo è stato spezzato a 12 anni dalla tragica morte dei suoi genitori (con annesso senso di colpa per non essere stato con loro). Un uomo che dunque non ha avuto la possibilità di farsi adulto nel confronto con loro e di sviluppare la propria autonoma personalità e fare le proprie scelte in quel naturale percorso di allontanamento/avvicinamento, rifiuto/accettazione, che caratterizza il rapporto genitori/figli. Un uomo che è in debito di cura e affetto, e che per questo non riesce a restituirne, autocondannandosi alla solitudine. E il fatto che sia gay è solo un accidente che non cambia molto il senso complessivo della narrazione (sebbene si parli anche di come sia cambiato nel tempo l'approccio all'omosessualità).
Una volta capito il finale del film e riletto lo stesso secondo una specifica chiave interpretativa (che non posso rivelare ma di cui troverete di tutto online), il film mi si è poi dispiegato in tutte le sue mille sfaccettature. Le letture e le spiegazioni possibili di quello che vediamo sullo schermo sono molteplici, e tutte più o meno plausibili, perché quando si varca la soglia del reale e si entra nei territori del subconscio o - che in fondo è lo stesso - in quelli del sogno, le suggestioni sono tante quante le nostre capacità di immaginazione, e ciascuna getta luce su un dettaglio o un aspetto diverso della narrazione. E così dentro ci ho visto finalmente quella catarsi di cui il mio amico M. mi ha parlato, quella che io ho interpretato come un ricongiungimento al proprio bambino interiore ferito, il passaggio definitivo dal ricercare la cura al prendersi cura. Resta però una catarsi che non riscatta l'abisso emotivo del film, che non può sfuggire alla constatazione che siamo e restiamo tutti estranei gli uni agli altri, cosicché il presunto potere dell'amore (richiamato più volte dalla canzone omonima che è la preferita di Adam) è solo illusorio e in qualche modo consolatorio rispetto alla nostra solitudine e caducità.
Ci sarebbero tante altre cose da osservare, da dire, da commentare, contenutistiche e stilistiche, ma ho già forse scritto troppo. Però sono molto contenta di aver dato a questo film il tempo di sedimentarsi e trovare senso dentro di me, senza liquidarlo rapidamente con la sensazione acerba dell'uscita dalla sala.
Voto: 3,5/5
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