Avevo già sentito parlare molto bene di questo film di Justine Triet, tra l'altro vincitore della Palma d'oro a Cannes, e dunque mi ero predisposta alla visione con grandi aspettative. Poi mi sono accorta che la regista è la stessa di Sybil, film che avevo visto un paio di anni fa e non mi era piaciuto granché, quindi sono andata al cinema con un atteggiamento neutrale, che poi è sempre la scelta migliore.
Siamo in una baita di montagna sulle Alpi francesi. Sandra Voyter (Sandra Hüller), una nota scrittrice, sta rilasciando un'intervista a una giovane studiosa per una tesi di laurea; intanto, dal piano di sopra - dove sta lavorando Samuel, il marito di Sandra - arriva una musica ad alto volume che rende sempre più difficile procedere con l'intervista. L'intervista viene interrotta, mentre Daniel (Milo Machado Graner), il figlio ipovedente undicenne della coppia, esce col suo cane-guida per una passeggiata nei boschi.
Al ritorno, Daniel trova suo padre sulla neve, morto. Poiché l'autopsia non è in grado di fornire una risposta definitiva alla dinamica della morte, e le varie ipotesi (incidente, suicidio e omicidio) sono tutte plausibili, a seguito dell'emergere di alcuni elementi, Sandra viene accusata di omicidio e processata, mentre Daniel diventa uno dei testimoni chiave, per quanto un testimone solo uditivo.
Fatto salvo il prologo che racconta l'evento da cui si dipana la narrazione, il film della Triet si struttura come un legal thriller, in quanto seguiamo lo sviluppo del processo a carico di Sandra con tanto di testimonianze, ricostruzioni, pareri di esperti, prove di vario genere ecc., attraverso il quale la vita di Sandra e Samuel viene passata al setaccio, alla ricerca di ogni più piccolo elemento a favore o contro la sua versione dei fatti. In aula si fronteggiano il pubblico ministero (Antoine Reinartz) e l'avvocato di Sandra, Vincent (Swann Arlaud), vecchio amico della stessa.
Il film tiene incollati alla sedia e non ha un attimo di cedimento, un vero meccanismo a orologeria nel quale siamo anche noi parte del pubblico che assiste al processo, anzi - meglio ancora - siamo in giuria a decidere qual è la verità e se Sandra va assolta o condannata.
Dal mio punto di vista esistono molteplici letture possibili di questo film, ma personalmente lo ritengo uno straordinario esperimento sociale sul complesso rapporto tra fatti e opinioni, tra realtà e narrazione.
A mio modo di vedere il personaggio centrale del film è Daniel, e secondo me la sua parziale cecità assume uno specifico significato non solo dal punto di vista narrativo. Di fronte alla morte del padre, fin dal principio Daniel dice che ha bisogno di capire, vuole trovare una spiegazione a quello che è successo; quando il processo volge ormai al termine ed è ormai evidente che entrambe le ipotesi, il suicidio del padre ovvero l'omicidio da parte da di Sandra, sono entrambe plausibili e sostenibili, né esiste alcuna prova risolutiva in una direzione o nell'altra, Daniel - in un dialogo con l'assistente sociale che le è stata affiancata dal tribunale - si chiede come si faccia in questi casi e Marge gli risponde che, in assenza di elementi certi, bisogna decidere quale interpretazione sposare.
Ebbene, questi due momenti ci consentono di leggere tutto il film come l'occasione per riflettere su come - rispetto a situazioni e temi complessi - si costruiscono le nostre opinioni, rispetto alle quali i fatti - lì dove sono decontestualizzati o comunque non risolutivi - finiscono per diventare un puntello della posizione che abbiamo deciso di prendere. In fondo siamo tutti come Daniel, parzialmente ciechi di fronte al reale, da cui ci giungono solo elementi conoscitivi che utilizziamo per costruirci opinioni, in buona parte radicate primariamente nella nostra sensibilità. Si tratta di un tema centrale non solo per noi come individui, bensì per la società umana tutta, tanto più in un periodo come quello in cui viviamo, in cui siamo sommersi di testimonianze, notizie, fatti, che ci danno l'illusione di conoscere la verità delle cose ma che in realtà utilizziamo sostanzialmente per farci un'opinione o meglio per rafforzare un'opinione che di fatto si nutre del nostro modo di essere. Su questo grande tema si va a innestare nel film quel mix sempre più inestricabile di eventi e narrazione degli eventi, vita reale e finzione narrativa che caratterizza la nostra contemporaneità, in un processo che tende a privilegiare sempre di più la narrazione, in quanto più accattivante e capace di produrre engagement. Se anche la letteratura diventa possibile elemento probatorio vuol dire che il confine tra realtà e racconto ha cessato di esistere.
L'aspetto che mi conferma nella mia lettura del film è che all'uscita ognuno di noi ha la sua idea su quale sia la verità, e ciascuno si è formato la sua opinione sulla base della propria sensibilità individuale, chi condizionato dalla propria tendenza all'analisi psicologica, chi da un punto di vista femminista, chi da una propensione al retropensiero. Io per prima sono stata molto condizionata dal fatto che il pubblico ministero mi ricordava tantissimo una persona che conosco e che mi è particolarmente antipatica.
Poi, certo, dentro il film c'è molto altro: una coppia borghese analizzata nei suoi elementi disfunzionali, una dinamica psicologica vittima-carnefice, un ribaltamento dei ruoli e delle rivendicazioni tra marito e moglie, una riflessione sul funzionamento dei meccanismi giudiziari, ma dal mio punto di vista questi sono tutti aspetti secondari rispetto al tema centrale del rapporto tra fatti e opinioni.
Voto: 4,5/5
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