Per completare la mia full immersion estiva nella rassegna Cannes Mon Amour vado a vedere l'ultimo film di Wim Wenders (che è presente nella rassegna anche con il documentario Anselm).
Non ho grandissime aspettative (non sono strettamente una cultrice di Wenders), ma mi incuriosisce l'ambientazione giapponese e così trascino la mia amica G. a vederlo.
Wenders - supportato alla sceneggiatura da Takuma Takasaki e chiaramente ispirandosi al cinema di Ozu - ci racconta la vita semplice di Hirayama (Kôji Yakusho), un uomo di una sessantina d'anni che vive in un piccolissimo appartamento, non lontano dallo Sky Tree (la torre delle telecomunicazioni che è uno dei simboli della città), e lavora come pulitore delle toilettes pubbliche per l'azienda cittadina.
La sua routine si ripete identica ogni giorno: si sveglia all'alba al suono della ramazza di una vicina che spazza per strada, si lava, si taglia i baffi, si rade, cura le sue piantine, si mette gli abiti da lavoro, prende un caffè al distributore che c'è fuori dalla sua casa e si mette in macchina per andare a lavorare. In macchina ascolta le sue cassette di musica degli anni Settanta (Patty Smith, Lou Reed, The Animals, The Kinks, che vanno tutti insieme a comporre una splendida colonna sonora), mentre attraversa la città per raggiungere tutte le toilettes a lui assegnate. Svolge il suo lavoro con un'attenzione e una cura ammirevoli, poi mangia un panino al parco dove scatta qualche fotografia agli alberi e alla luce che li attraversa con la sua macchina fotografica analogica, poi terminato il turno di lavoro, torna a casa, prende la bicicletta, va a lavarsi ai bagni pubblici, poi va a mangiare in una tavola calda e prima di dormire legge i romanzi (Faulkner, Highsmith) che compra sempre nella stessa libreria. La notte trasfigura in immagini in bianco e nero, piene di luci e ombre, quello che ha vissuto durante la giornata. Il fine settimana Hirayama segue un'altra routine che però anche quella si ripete ogni fine settimana.
E Wenders non fa altro che seguire quest'uomo nelle sue giornate meticolosamente tutte uguali cogliendo le espressioni del viso e i sentimenti che lo attraversano, e che solo raramente Hirayama traduce in parole. Nel frattempo osserviamo queste straordinarie toilettes, una diversa dall'altra, piccole opere di mirabile architettura (non a caso elencate con i relativi autori nei titoli di coda del film), luoghi di passaggio e di utilità per i cittadini, ma universo di senso per Hirayama.
Per la prima ora sembra quasi di assistere a un documentario muto (tra l'altro girato in 4:3), dove non succede quasi nulla, se non lo scorrere di una vita che si ripete ossessivamente uguale tutti i giorni. Detto così, si potrebbe pensare che il film di Wenders è di una noia mortale, e invece la vita di Hirayama ci cattura e ci conquista per il suo essere intrisa di una insospettabile e inattesa pienezza e tenerezza, di una forma di gioia fatta della capacità di apprezzare le piccole cose di tutti i giorni e di osservare con occhio attento e benevolo il mondo che lo circonda. Hirayama non è un uomo del presente - la sua vita sembra essere congelata in un passato non lontanissimo, ma di certo superato - però vive pienamente nel presente, perché come dice alla sua adorata nipote "Il presente è presente, la prossima volta è la prossima volta".
È l'arrivo di questa nipote che non vede da tempo a innescare un movimento all'interno della trama e a far intravedere - seppure in controluce - i dolori del passato che Hirayama si è lasciato alle spalle (una sorella con cui non ha più rapporti), e un ulteriore parziale smottamento della routine si produce quando un fine settimana l'uomo va al locale dove va tutti i fine settimana, gestito da una donna che ha un debole per lui, e lo trova chiuso, salvo poi assistere a una scena inaspettata.
Si tratta però solo di piccole increspature nella malinconia agrodolce di una vita semplice e di un personaggio che avresti voglia di abbracciare a più riprese, e alla cui vita - per quanto lontana dalla nostra - aderiamo con trasporto e tenerezza.
Il film di Wenders si conclude, al termine dei titoli di coda, con la parola "komorebi", che è la parola giapponese che indica "la luce che filtra tra le foglie degli alberi, un momento breve, ma intenso, che esprime uno stato d’animo, una sensazione che è sfuggente, come i raggi di sole che filtrano tra le foglie degli alberi di un bosco", e forse in questo termine c'è il senso di questo racconto, e probabilmente della nostra stessa vita.
Voto: 4/5
Me lo segno mi hai incuriosita e mi è piaciuto il tono del tuo post.
RispondiEliminaTra i recuperi dello scorso anno nella mia classifica avevo messo un film di Wenders 'Alice nelle città' che mi era piaciuto particolarmente.
Regista particolare comunque. 👋
A me come si è capito è piaciuto molto. Se ti piace la filosofia giapponese di vita ti piacerà!
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