È la sesta volta che vado a un concerto di Micah P. Hinson, e di queste almeno tre al Monk, luogo di Roma che amo molto.
Rispetto alle altre volte arrivo molto più preparata: l'ultimo disco, I lie to you, mi è piaciuto già al primo ascolto, e da quel momento l'ho ascoltato innumerevoli volte fino a imparare a memoria alcune delle canzoni. Lo stile è quello a cui Micah ci ha abituati, ma a questo giro gli arrangiamenti sono davvero spettacolari e dentro c'è molta Italia. Il disco è nato infatti in Irpinia, in seguito alla partecipazione di Micah al festival musicale organizzato da Vinicio Capossela, lo Sponz Fest, e gli arrangiamenti sono di Alessandro "Asso" Stefana (il chitarrista di Capossela). È proprio quest'ultimo che - insieme al bravo batterista Paolo Mongardi - accompagna Micah nel suo tour.
A questo giro, il chitarrista americano, originario di Memphis e poi cresciuto in Texas - come del resto lui stesso tiene tutte le volte a sottolineare -, si presenta sul palco con una specie di tuta da meccanico e una acconciatura da nativo americano (di cui rivendica le ascendenze). Dopo un po' di canzoni, Micah indossa un cappello con una piuma che completa questo quadro un po' eccentrico.
La formula adottata per il concerto è quella di cantare gruppi di 2-3 canzoni dal nuovo album, alternate a vecchi successi e cover. La maggior parte delle canzoni sono accompagnate dai due musicisti: Stefana in particolare svolge il ruolo di polistrumentista suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar. Su alcune canzoni Micah P. Hinson resta da solo sul palco con la sua chitarra acustica (ci dice che quella con la scritta "This machine kills fascists" si è purtroppo rotta e l'ha dovuta buttar via) e la sua voce, che sembra provenire dalle profondità della terra.
L'ultimo album viene eseguito interamente. Il pubblico si scalda sull'esecuzione della cover di John Denver Please daddy, don't get drunk for Christmas, su cui poi Micah commenta che è curioso come questa canzone coinvolga il pubblico in un clima quasi festoso, sebbene abbia un contenuto non certo allegro. Del resto - aggiunge - ciò è proprio del potere di manipolazione della musica, che può orientare le nostre reazioni e sentimenti in un senso o nell'altro nonostante i testi e i messaggi da essi veicolati.
Io apprezzo particolarmente l'esecuzione di Carelessly e What does it matter now (una delle mie canzoni preferite dell'album), nonché quella di On the way home (to Abilene), che proviene da un album precedente. Gli arrangiamenti sono a tratti davvero entusiasmanti e ci si incanta non solo ad ascoltare Micah che canta, ma anche a guardare e ascoltare i tre musicisti nelle loro esecuzioni.
Tra una canzone e l'altra - come è tipico dei suoi concerti - Micah chiacchiera con il pubblico, passando da temi molto gravi ad altri decisamente più scherzosi e leggeri, con questo dimostrando di non essere solo il poeta maledetto del folk americano (con le sue stramberie e i suoi tic).
Al termine del concerto è rimasta fuori una canzone per me centrale dell'album, forse la più bella, You and me, ma sono sicura che Micah ce la regalerà nel dovuto e richiestissimo bis. E infatti eccolo di nuovo sul palco a cantare questo struggente pezzo e poi di nuovo con i musicisti a trascinarci nella cover di una scatenata ballata country, con cui Micah certifica la sua ascendenza musicale e si colloca idealmente in continuità con i grandi nomi del genere "americana".
Ascoltando Micah si sente tutta la polvere e la solitudine delle grandi lande americane, con i loro paesini opprimenti e privi di prospettive, dove il sogno americano si infrange contro forme di devastazione umana e familiare più o meno gravi. Non ho potuto fare a meno di collegare il concerto cui ho assistito alla lettura attualmente in corso del libro Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel, che proprio di questa provincia americana desolata e di persone spezzate ci racconta con grande profondità.
I concerti di Micah P. Hinson non andrebbero mai persi.
Voto: 4,5/5
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