Forse Holy spider non è originale e spiazzante come Border – Creature di confine, il precedente film di Ali Abbasi, però è un film ancora più necessario.
Dopo un film ispirato al testo di uno scrittore svedese e in parte debitore nei confronti della cultura scandinava, il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi sposta lo sguardo verso il suo paese di origine, quello che ha lasciato molti anni fa, l’Iran, per raccontare una vicenda ispirata alla storia vera di Saeed Hanaei, il serial killer delle prostitute che operò a Mashad tra il 2000 e il 2001.
In realtà il film inizia come un thriller/poliziesco classico di finzione, e la triste verità di quello che ci viene raccontato è rivelata solo alla fine, prima dei titoli di coda.
La storia, nella sua essenza, potrebbe essere ambientata ovunque: Saeed (Mehdi Bajestani) è un reduce di guerra, marito e padre di tre figli, il quale esce la notte per adescare per strada prostitute che poi ammazza in casa strangolandole. Una giovane giornalista, Rahimi (la luminosa Zahra Amir Ebrahimi, giusta vincitrice del premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes) arriva dalla città per capirne di più su questi omicidi, e inizia a indagare mettendo a rischio la propria stessa vita.
Ciò che rende questo racconto diverso da altri classici film incentrati su serial killer e dalle trame tutto sommato molto simili è l’ambientazione e il contesto nel quale si svolge. Siamo in Iran, in una città la cui vita ruota attorno a un santuario che è meta di pellegrinaggio, e Saeed è un fanatico religioso, convinto di fare la volontà di Allah ripulendo le strade da donne indegne, e proprio per questo cerca visibilità e seguito. Saeed si muove in un contesto profondamente maschilista e bigotto, nel quale la religione informa e condiziona ogni aspetto della vita individuale e sociale.
La giovane Rahimi, che proviene da Teheran e ha subìto sulla propria pelle gli effetti del maschilismo tossico e violento, si muove nelle pieghe di questo caso con determinazione e sprezzo del pericolo, ma anche con compassione e intelligenza. L’andamento dell’indagine prima e il suo esito dopo sono un viaggio nell’orrore di un paese dominato da uomini autorizzati a spadroneggiare e di donne trattate come oggetti. Un paese le cui istituzioni – ampiamente conniventi se non ispiratrici dei più biechi sentimenti popolari – fanno esclusivamente i propri interessi, strumentalizzando gli individui e scaricandoli quando necessario.
La sequenza finale in cui Rahimi, mentre è nell’autobus che la riporterà a Teheran, riguarda sulla sua videocamera le immagini girate a casa di Saeed che hanno come protagonista il figlio maggiore di quest'ultimo - che ha non più di 12 anni - sono agghiaccianti, un vero e proprio pugno nello stomaco, che danno molto da riflettere sulla responsabilità collettiva del perpetuarsi di questa società profondamente tossica.
Uscendo dal cinema si riesce solo a pensare a quanto siamo fortunate noi donne che non siamo nate e non viviamo in un posto come l’Iran, e si avverte anche la frustrazione e l’impotenza di fronte a un mondo le cui malattie sembrano non avere cura.
Zahra Amir Ebrahimi è interprete perfetta di questa figura di donna che non si vuole sentire inferiore a nessuno e vuole combattere il sistema, e illumina lo schermo con la sua presenza per tutta la durata del film. Conoscere (solo a posteriori nel mio caso) la sua storia personale (un video intimo è stato diffuso pubblicamente in Iran ed è dovuta per questo fuggire in Francia dove attualmente vive), è soltanto un elemento che suggella la forza del suo personaggio.
Voto: 3,5/5
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