Sono ormai diventata un'affezionata frequentatrice del cinema Troisi, anche per la possibilità di partecipare a presentazione e dibattiti che riguardano i film in programmazione.
In questo caso, in occasione della Giornata della memoria, è prevista la proiezione del film Quel giorno tu sarai di Kornél Mundruczó, la cui sceneggiatura è stata scritta da Kata Wéber, autrice ungherese di madre ebrea, nonché moglie del regista.
Al dibattito/presentazione che precede il film, organizzato dalla rivista e il Centro Studi Confronti e dall'Associazione Piccolo America, partecipano la stessa sceneggiatrice (in video-collegamento), il regista e sceneggiatore Alberto Caviglia, la filosofa Raffaella Di Castro, la giornalista e scrittrice Lia Tagliacozzo, moderati da Michele Lipori. Viene anche proiettato un videomessaggio registrato della scrittrice ungherese Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di sterminio e vincitrice del Premio Strega Giovani 2021 con il libro Il pane perduto. Il dibattito è interessante, anche se è parecchio disturbato da problemi di collegamento con la Webér cosicché risulta un po' meno coinvolgente di quanto avrebbe potuto essere.
Il film di Mundruczó, regista già conosciuto in Italia per la precedente pellicola Pieces of a woman (che però io non ho visto), racconta la storia dell'eredità della Shoah su tre generazioni, quella di Éva (miracolosamente ritrovata, piccolissima, in un campo di concentramento dopo l'arrivo dei russi), quella di Léna, la figlia di Éva (arrivata a Budapest per accudire la madre ormai anziana), e quella di Jonas, il figlio adolescente con cui Léna vive a Berlino.
Il tema centrale del film è certamente quello della memoria, strettamente connesso a quello dell'eredità della Shoah attraverso le generazioni, tema tra l'altro molto sensibile in un momento in cui i testimoni oculari dell'Olocausto sono rimasti in pochi e nel giro di qualche anno non ci saranno più.
Quel giorno tu sarai parla anche di questo, mostrando come - allontanandosi da Éva, che porta con sé i propri ricordi ma soprattutto i racconti di coloro che nella sua generazione hanno vissuto l'orrore dei campi di concentramento - il significato dell'essere ebrei e di quello che la Shoah ha rappresentato per loro comincia ad affievolirsi e ad essere percepito come un peso di cui liberarsi, più che come una vicenda collettiva di cui coltivare la memoria.
Mundruczó sceglie una forma cinematografica peculiare per comunicare questo processo: innanzitutto un formato piuttosto stretto dello schermo (una specie di 4:3) e in secondo luogo tre lunghissimi piani sequenza, che nelle tre parti del racconto non si staccano un attimo dai protagonisti e non danno respiro allo spettatore.
Sceneggiatrice e regista scelgono inoltre immagini forti (penso soprattutto a quella iniziale dei soldati che ripuliscono una delle celle del campo di concentramento) e molti simboli, primo fra tutti quello dell'acqua, protagonista sia nel primo capitolo che nel secondo, simbolo di purificazione. Anche nel terzo capitolo non mancano passaggi narrativi simbolici: Jonas che si toglie l'ultimo dente da latte, Jonas che indossa maschere di mostri, Jonas che si innamora di una ragazzina immigrata.
Per quanto mi riguarda, pur apprezzando la confezione stilistica del film e la forza di alcuni suoi contenuti, sono rimasta un po' interdetta dalla semplificazione operata in termini di simboli, oltre ad aver faticato parecchio in termini di attenzione in alcuni passaggi secondo me un po' ripetitivi.
Credo sia soprattutto questione di cultura cinematografica e di scelte narrative che sento meno vicine alla mia sensibilità e con cui faccio fatica a entrare in sintonia.
Voto: 3/5
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