Il giovane regista Ameer Fakher Eldin è nato in Ucraina, o sarebbe meglio dire nell'ex Unione Sovietica, ma i suoi genitori sono siriani, originari delle alture del Golan, il luogo in cui è ambientato questo film.
Prima di andare a vedere Al garib vi consiglio vivamente (cosa che io colpevolmente non ho fatto) di andare a guardarvi un po' di storia e geografia di questo luogo: le alture del Golan, un tempo territorio siriano, sono state occupate nel 1967 e annesse a Israele. Oggi il Golan vive stretto tra gli echi della devastante guerra che ha annichilito la Siria, e il rigido controllo interno dell'esercito israeliano, determinando quel senso di perdita dell'identità che il regista incarna nel suo protagonista, Adnan.
Adnan - che è ritornato nel Golan dopo un corso da medico fatto in Russia e non completato - non vuole andare via dalla sua terra, ma vive un senso di profonda alienazione, rispetto al quale non riesce a vedere alcun tipo di via d'uscita. Suo padre lo ha diseredato per i suoi fallimenti, la madre prega che dio lo protegga, sua moglie e sua figlia accettano silenziose e tristi la sua assenza, il fratello di sua moglie lo minaccia.
Nel frattempo Adnan trascorre gran parte del suo tempo al meleto del padre, mentre gli alberi sopravvivono a fatica e la mucca di famiglia non riesce più nemmeno a dare latte. Così Adnan affoga il suo malessere nell'alcol e nell'inerzia, fino a quando la sua strada incontra quella di un giovane siriano non solo e non tanto in fuga dalla guerra, bensì alla ricerca delle radici della sua famiglia, che anche per lui affondano in questo altopiano. Questo incontro accenderà in Adnan il fuoco di una speranza e di uno scopo, alfine però accentuando ancora di più il senso di estraneità e l'impossibilità di definire la propria identità. Cosicché è inevitabile chiedersi chi tra Adnan e il giovane siriano sia lo straniero richiamato nel titolo del film.
Ameer Fakher Eldin ci propone il ritratto drammatico di un uomo e di una terra, entrambi annichiliti dalle conseguenze di guerre insensate e dalla totale assenza di prospettiva.
Il suo film è fatto di immagini di grandissimo impatto visivo: chiaroscuri caravaggeschi negli interni, nebbie fitte negli esterni, strade tortuose che si inerpicano sulle montagne. Le parole sono importanti, ma com'è tipico della cinematografia mediorientale sono usate con moderazione, lasciando ai volti e alle immagini il compito parlare e dunque allo spettatore quello di "capire" con altri sensi e interpretare.
All'interno di una narrazione siffatta, non tutto viene spiegato, molte cose restano oscure e non conosciute, perché quello che interessa al regista non è raccontare una storia dal principio alla fine, bensì suggerire una condizione, far percepire gli stati d'animo, innescare una riflessione.
Ne viene fuori un cinema che si colloca all'intersezione di tanti modelli importanti, ma a cui il regista imprime il suo tocco personale.
Non una visione facile, né leggera, però un'occasione di conoscenza e di empatia.
Voto: 3,5/5
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