La città dei vivi / Nicola Lagioia. Torino: Einaudi, 2020.
La scrittura ombrosa e sottilmente inquietante di Nicola Lagioia – che già avevo avuto modo di conoscere attraverso il suo romanzo vincitore del Premio Strega, La ferocia – si mette questa volta al servizio di un fatto di cronaca nera tra i più efferati avvenuti a Roma nel corso degli ultimi anni.
Parliamo del delitto di Luca Varani, un giovane di famiglia umile della periferia romana, torturato e ucciso senza un movente specifico da altri due giovani di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, dopo giorni di sballo a base di sesso e cocaina nella casa del primo, nel quartiere Collatino.
Quello di Nicola Lagioia non è un romanzo - e forse avremmo preferito che lo fosse – ma un’inchiesta giornalistica scritta in forma letteraria, da uno che i romanzi li sa scrivere e che sceglie di evitare il linguaggio freddo e distaccato degli atti giudiziari così come il tono scandalistico e sopra le righe dei giornali.
L’autore ricostruisce la vicenda di questi tre giovani, e di tutti coloro che più o meno direttamente sono stati coinvolti in questa vicenda, con un’empatia e una partecipazione di alto profilo, scegliendo anche di mettere a nudo una fase non edificante della propria vita per far comprendere i motivi per cui il caso di cronaca lo ha coinvolto emotivamente e psicologicamente in maniera così profonda.
L’omicidio Varani viene inserito nella cornice di un altro racconto, quello di una città, Roma, che svolge un ruolo importante nel far comprendere il contesto nel quale l’evento si consuma: una città dove la cocaina scorre a fiumi, dove il sindaco è stato destituito, dove l’immondizia invade le strade, dove sono in corso due altre indagini diciamo di tipo sistemico: quella, nota anche con il nome di Operazione Mondo di Mezzo (e poi passata “alla storia” come Mafia capitale), che porta alla scoperta di un sistema di corruzione così ampio e diffuso nel sistema città da non riuscire nemmeno a intravederne i confini, e quella che porta alla scoperta di un vasto giro di pedofilia che si sviluppa intorno alla stazione Termini.
La città di Roma è dunque il girone infernale nel quale si muovono i protagonisti di questa vicenda, nonché lo stesso scrittore che proprio in quegli anni decise di lasciare la città alla volta di Torino, salvo poi farvi ritorno.
Roma diventa così simbolicamente la massima incarnazione dell’attrazione quasi morbosa per il male che ognuno si porta dentro, mescolata a quei frammenti di bellezza pura e assoluta che pure albergano nell’essere umano.
La rappresentazione di Roma come città in decomposizione capace di contagiare chiunque ci viva abbastanza, da cui tutti attendono l’occasione per fuggire salvo poi provarne nostalgia, mi ha ricordato a tratti quella, persino più cupa, certamente più cinica, di Francesco Pecoraro ne Lo stradone, e ha confermato la mia teoria ormai pluridecennale su Roma, una città che odi per mille motivi ma che si fa perdonare tutto con brevi esplosioni di straordinaria bellezza.
Il racconto dell’omicidio di Luca Varani da parte di Manuel e Marco, la ricostruzione dei profili psicologici di ciascuno dei protagonisti e in parte dei comprimari, è a sua volta una discesa agli inferi, in quelle profondità di noi stessi che tutti noi celiamo sotto una spessa coltre di razionalità, umanità e buon senso, e che difficilmente siamo in grado di riconoscere come parte di noi. Come dice Lagioia, di fronte a vicende come queste è quasi automatico guardare alla vittima nel cercare di allontanare da noi stessi una possibilità simile. È un po’ come quando per strada incontriamo la scena di un incidente: nessuno di noi passa indifferente, tutti rallentiamo, tutti vorremmo fermarci a capire che cosa è successo, tutti temiamo e al contempo allontaniamo da noi la possibilità di essere al posto del malcapitato.
Quasi mai pensiamo invece che potremmo essere al posto del “carnefice”, essere noi gli autori del male, con la debole autogiustificazione che noi siamo diversi e che a noi non sarebbe mai successo.
In fondo Manuel Foffo e Marco Prato, pur essendo ragazzi a loro modo problematici – ma come ce ne sono moltissimi -, erano persone normali, venivano da famiglie normali, e probabilmente – come più volte viene ventilato nel libro e anche dagli atti giudiziari – se non si fossero incontrati nulla mai sarebbe successo di quello che è accaduto.
Forse Marco Prato, una personalità probabilmente narcisistica e manipolatrice, si sarebbe lo stesso suicidato a un certo punto della sua vita (del resto ci aveva già provato in precedenza), forse Manuel Foffo avrebbe avuto una vita grigia e anonima, ma nessuno dei due sarebbe diventato un assassino efferato.
Nel leggere la loro storia è tornata a galla nei miei ricordi una vicenda che ha segnato profondamente la mia giovinezza, l’omicidio di un ragazzo poco più grande di me, Valerio Gentile, che frequentava il mio stesso liceo. Il suo corpo senza vita (morto soffocato), con la testa fracassata dalle pietre, fu trovato nel marzo del 1993 in un bosco sulla Selva di Fasano. Quando ebbi questa notizia ne rimasi sconvolta: avevo conosciuto, sebbene non in maniera personale, Valerio; aveva partecipato a una gita scolastica in cui c’ero anche io. Era un ragazzo brillante e dalla personalità esuberante, forse mentalmente più avanti della sua età, non faceva mistero del suo orientamento omosessuale in un’epoca in cui esserlo era una vergogna senza fine e qualcosa di cui nessuno poteva parlare apertamente. E mi colpisce che ancora oggi se si cercano notizie su di lui questo aspetto viene quasi sottaciuto, come se fosse una colpa della vittima. Probabilmente dietro il suo omicidio c’era un diverbio dovuto a un debito non pagato per prestazioni sessuali e forse i coinvolti erano ragazzi come lui e di buona famiglia, ma dopo un lungo processo l’omicidio è rimasto senza colpevoli, perché probabilmente l’omertà e la paura che attraversano una piccola comunità conservatrice hanno reso impossibile fare giustizia.
Nella storia di Luca Varani e dei suoi assassini ho riconosciuto, a distanza di oltre vent’anni, alcune dinamiche simili, che forse sono proprie dell’essere umano, ossia la necessità per tutti di prendere le distanze, di scavare nel torbido delle vite di queste persone per marcare la differenza e per gridare – in primis a noi stessi – che a noi non sarebbe accaduto.
Eppure, fatta la tara della distanza della nostra dalle vite di queste persone, negli interstizi della ricostruzione di Lagioia riconosciamo alcuni dettagli e sensazioni che non possiamo non sentire familiari. A me per esempio ha molto impressionato lo scambio di messaggi tra Marco Prato e l’amico Damiano, perché in quell’amicizia tossica e manipolatoria non ho potuto non riconoscere alcune cose che – seppure con un’intensità inferiore – ho vissuto in passato.
E così il libro di Lagioia ti rimane appiccicato addosso con la sua consistenza vischiosa da cui si fa fatica a liberarsi anche dopo la fine della lettura. Vorremmo viverlo come un horror – di quelle storie che abbiamo letto nei romanzi o visto in tanti film – ma in realtà La città dei vivi parla della complessità della nostra umanità, di quanto il male sia radicato nella profondità di ciascun essere umano, di quanto le nostre vite camminino in equilibrio su un filo sottile della cui fragilità dobbiamo essere consapevoli. L’invito che personalmente ho colto è quello di non aderire ad autoassolutorie contrapposizioni manichee che mettono i giusti da una parte e gli sbagliati dall’altra, ma anche di non abdicare a quel principio di responsabilità cosicché ciascuno di noi deve assumere su di sé le conseguenze delle proprie azioni, senza cercare facili capri espiatori e giustificazioni esterne.
Voto: 4/5
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