Crepitio di stelle / Jón Kalman Stefánsson; trad. di Silvia Cosimini. Milano: Iperborea, 2020.
«Il cielo si fa scuro intorno a noi, è sera; s’illumina e poi diventa azzurro, è arrivato il giorno. Ma questo cielo, dimora di Dio e tetto sopra le nostre vite, non esiste da nessuna parte, se non nelle nostre teste. Il cielo è solo il termine con cui indichiamo una distanza incomprensibile – ed è lì che siamo diretti.
Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo, nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro.» (p. 201)
In questa luminosa pagina del romanzo, Jón Kalman Stefánsson, attraverso la sua prosa quasi poetica, si interroga su un tema antico quanto l’umanità stessa, ossia il senso – o forse meglio il nonsenso - della nostra esistenza umana, e professa la sua dichiarazione d’amore per le storie, vero e proprio antidoto all’infinito e insensato scorrere del tempo che tutto travolge e tutto assorbe.
Crepitio di stelle è uno dei primi romanzi di Stefánsson, solo ora tradotto e portato in Italia dalla casa editrice Iperborea, sulla scia del successo dei romanzi dell’autore già pubblicati in italiano. Il fatto che si tratti di uno dei suoi primi lavori spiega forse la necessità da parte dello scrittore di spiegare perché egli continui a frugare nelle memorie familiari e nelle storie del passato riportandole alla luce e fissando sulla carta la loro intrinseca volatilità.
In questo romanzo due sono le storie che si dipanano attraverso le pagine: le memorie dell’infanzia dello stesso narratore, all’epoca in cui abitava in una soffitta di Reikyavik insieme al padre dopo la morte prematura della madre (siamo negli anni Sessanta), e le vicende del bisnonno e della bisnonna agli inizi del Novecento.
E così, da una parte leggiamo di questo bambino che si ritrova di fronte alla necessità di affrontare un lutto, a un padre sempre più silenzioso, a una matrigna decisamente poco empatica, e si difende come può e nel modo in cui solo un bambino è in grado di fare: con la fantasia che gli consente di attribuire sentimenti e azioni all’esercito di soldatini che gli ha comprato lo zio dopo la morte della madre e mediante i giochi con gli amici del quartiere. Dall’altro conosciamo la storia del bisnonno, un uomo inquieto, sognatore e in parte inaffidabile, delle sue alterne fortune, e soprattutto dell’incontro con la bisnonna, una donna volitiva e con le idee chiare, con la quale mette al mondo quattro figli, tra cui il nonno materno del narratore.
Chi già ha letto altri romanzi di Stefánsson sa che lo scrittore non ama le narrazioni lineari, bensì si muove attraverso le storie in maniera evocativa e poetica, soffermandosi a volte su dettagli piccoli, altre volte lasciando al lettore il compito di intuire gli sviluppi, rispetto ai quali egli offre solo degli indizi. Quello che più interessa a Stefánsson è sottrarre le persone e le storie all’oblio della memoria, riportarle in vita almeno per il breve tempo della lettura, farle risuonare nelle vite degli altri e replicarle nel tempo perché non vadano perse.
Perché – come lui stesso ci dice nella citazione con cui ho aperto questo post – le storie sono l’unica cosa che abbiamo per contrastare il passare del tempo e l’eterno andare dell’universo senza alcuna direzione né intenzione.
Crepitio di stelle è un titolo bellissimo, e anche solo per questo – per tacere dell’intensità emotiva di alcuni passaggi – il romanzo di Stefánsson merita di essere letto.
Voto: 3,5/5
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