Come parlare dell'orrore della guerra senza mai mostrare scene di guerra, anzi andando a scovare la bellezza anche lì dove - dietro di essa - si nasconde una profonda disumanizzazione?
Ce lo mostra sul grande schermo Gianfranco Rosi che per tre anni ha girato con la sua telecamera nelle zone di confine tra Siria, Iraq, Iran, Kurdistan e Libano.
Notturno è poesia per immagini, i cui frammenti sono mirabilmente composti in un insieme coerente. L'attenzione per la composizione visiva, il montaggio e le scelte sul sonoro creano un effetto ipnotizzante e spiazzante per lo spettatore, in quanto accade spesso che la forma - compositivamente e visivamente magnifica - crei un effetto straniante rispetto a ciò che rappresenta: penso ad esempio al cacciatore in barca che si muove silenzioso sotto questo cielo arancio carico che però non è prodotto da un tramonto ma dai pozzi di petrolio che bruciano; ovvero al rumore delle mitragliatrici che spesso sentiamo in sottofondo a scene di un'apparente normalità e che attraversano gli spezzoni di girato confondendosi con suoni simili, come quello dei gruppi elettrogeni.
Il modo di raccontare di Rosi mi ha ricordato quello di un altro documentarista che amo molto, Roberto Minervini, in particolare nella scelta di un approccio che non prende di petto l'oggetto della narrazione, bensì gli si muove attorno fino a raggiungere la stessa lunghezza d'onda facendosi parte dell'oggetto.
Mentre Minervini sta quasi sempre incollato ai suoi personaggi, li osserva da vicino in maniera più o meno discreta trasformando la telecamera in uno dei protagonisti, Rosi ci dà la sensazione non solo di guardare la realtà in modi diversi, da lontano fino ad arrivare al molto vicino, enfatizzando in questo modo il ruolo stesso del cinema come sguardo, bensì anche di comporre la realtà perché assomigli di più al proprio sguardo (lo si nota fin da subito nella sequenza delle donne con il burqa nero che fanno una specie di processione in una prigione ormai abbandonata dove è morto il figlio di una di loro, che è certamente una "messa in scena" voluta dal regista).
E così, a sequenze quasi surreali (si pensi ad esempio a quella che insiste sullo sguardo del cavallo "parcheggiato") si alternano altre strazianti (il bambino in orfanotrofio che commenta i disegni degli altri bambini in cui quasi sempre sono raffigurate le violenze dei combattenti dell’ISIS, Daesh come dicono loro) o intrise di pietas umana (vedi la sequenza nel carcere in cui sono rinchiusi gli stessi combattenti ISIS catturati).
Situazioni molto diverse e più o meno tangenti con la guerra vengono tutte messe sullo stesso piano lasciando allo spettatore – anche grazie alla prevalenza dell’immagine sulle parole – la libertà di individuare il proprio personale fil rouge e di sviluppare la propria interpretazione di quello che vede.
Rosi non preme l’acceleratore sul melodramma a tutti i costi per suscitare l’empatia dello spettatore, anzi – con la bellezza delle immagini e delle inquadrature – in un certo senso ci sottrae all’inganno della lacrima facile e ci costringe invece a trovare attivamente un senso a quello che vediamo.
Un film che rimane a lungo negli occhi.
Voto: 4/5
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