In una breve vacanza pre-ferragostana nelle Marche nella zona del mio amico M., ho la fortuna di essere a Montefiore dell'Aso nei giorni della rassegna estiva di cinema, organizzata dallo scenografo Giancarlo Basili che è del luogo e le cui opere sono esposte al locale Polo museale (visitato il giorno primo e assolutamente consigliato).
La rassegna dura poco ma i film scelti dimostrano che dietro la selezione c'è qualcuno che di cinema ne capisce. Io e M. decidiamo di andare a vedere Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher che nessuno dei due ha visto questo inverno.
Siamo in campagna in un luogo e in un tempo imprecisati. Il luogo - scoprirò dopo - è l'affascinante e selvaggia zona dei calanchi che si sviluppa nella zona tra il viterbese e il ternano. In quanto all'epoca, potrebbero essere gli anni cinquanta per il modo in cui vivono e lavorano i contadini della Marchesa De Luna (Nicoletta Braschi), ma - man mano che la narrazione prosegue - capiamo che siamo probabilmente all'inizio degli anni Novanta.
In questo mondo arcaico dove i contadini vivono inconsapevoli di quello che accade fuori dal loro microcosmo e tenuti volontariamente all'oscuro di tutto dalla Marchesa che li tratta come mezzadri, nonostante la mezzadria sia stata abolita da tempo, vive anche Lazzaro (Adriano Tardiolo), un giovane dall'aria ingenua e dal gran cuore, che lavora sodo e non si tira mai indietro di fronte a nessuna richiesta pur di far contenti gli altri.
Quando arriva alla tenuta dell'Inviolata la marchesa con suo figlio Tancredi, Lazzaro fa amicizia con quest'ultimo e lo asseconda nel suo tentativo di attirare l'attenzione della madre fingendo di essere stato rapito.
Questo "scherzo" fa precipitare gli eventi. I carabinieri scoprono la situazione illegale in cui si trova la tenuta e portano via i contadini, mentre Lazzaro cade in un dirupo.
Quando si sveglia sono passati 20 anni e tutto è cambiato, tranne lui. Lazzaro torna alla tenuta dove non trova più nessuno cosicché si dirige verso la città dove incontra molti degli ex contadini e lo stesso Tancredi, i primi ancora più poveri di com'erano e il secondo decaduto e ridotto in povertà.
Quella di Alice Rohrwacher è una fiaba triste dentro la quale confluiscono molti temi e spunti di riflessione.
Innanzitutto la parabola - tanto più efficace in quanto sviluppata dentro un tempo compresso - di un'intera società in cui i poveri e gli sfruttati, pur passando da servi a uomini liberi, restano degli emarginati impegnati in una quotidiana lotta per la sopravvivenza. E mentre gli sfruttatori che furono sono ridotti anch'essi alla fame, nuovi sfruttatori meno identificabili e più volatili sono emersi.
In secondo luogo la trasversalità e la continuità di un qualcosa che, pur essendo una caratteristica che appartiene all'umanità, appare straordinaria e miracolosa, ossia la bontà incarnata da Lazzaro, destinata a essere scambiata a seconda dei casi per ingenuità o santità, risultando in generale incompresa e alla fine soffocata.
Negli occhi puliti e privi di preconcetti e malizia di Adriano Tardiolo c'è un'umanità primitiva - che poi forse non è mai esistita - basata sulla fiducia nell'altro e sulla collaborazione, che non ha posto nel consesso umano come il lupo ormai troppo debole per cacciare che viene espulso dal branco.
Una riflessione amara sul progresso e sui suoi frutti amari, conseguenza di un'umanità cieca e accecata dal dio denaro.
Voto: 3,5/5
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