martedì 4 giugno 2019

Dolor y gloria

Pedro Almodovar ha ormai 70 anni. Ho seguito la sua filmografia in maniera non assidua ma certamente continuativa negli ultimi 25 anni. L'ho amato e odiato a più riprese, mi ha fatto commuovere e mi ha lasciato indifferente a seconda dei casi, l'ho sentito sotto la pelle e in altri momenti disprezzato, com'è normale che sia nell'incontro tra due sensibilità che mai possono risultare perfettamente sovrapponibili.

Sarà che la mia natura riflessiva e non certo esuberante mi ha impedito di entrare in sintonia con gli esordi fulminanti della sua cinematografia, ma ho iniziato ad apprezzare il cinema di Almodovar a partire dalla sua maturità, quella in cui ha cominciato a riflettere su sé stesso e su alcuni aspetti della sua storia e del suo passato.

Ora di fronte alla vecchiaia del regista e a un film profondamente intimo, mi ritrovo commossa e conquistata come non mi era mai capitato con Almodovar.

Con Dolor y gloria Pedro Almodovar decide di chiudere i conti aperti, e lo fa scegliendo un attore che forse mai come in questo film è riuscito trovare la giusta misura, un alter ego dolorosamente e gloriosamente credibile.

Un regista stanco, pieno di acciacchi fisici e mentali, Salvador Mallo (Antonio Banderas), si ritrova privo della spinta vitale per continuare a fare l'unica cosa che ha sempre fatto nella vita, scrivere e girare film.

Un giorno viene chiamato a presentare un suo film di 30 anni prima e - anche grazie a una serie di coincidenze - decide di farlo insieme all'attore che lo aveva interpretato e con cui non parla da allora, a causa di divergenze nel modo di intendere e rappresentare il personaggio principale.

L'incontro con quest'ultimo, eroinomane e in crisi per mancanza di ruoli, da un lato lo inizia all'eroina, dall'altro innesca una serie di vicende che gli permetteranno di incontrare il suo amore di gioventù, Federico, di cui ha perso le tracce. Nel frattempo nel dormiveglia - sempre più frequente a causa dell'eroina - i ricordi del passato lo investono come un treno in corsa riportandolo al paese dove è cresciuto, alla madre, alla sua passione per lo studio e per il cinema, a Eduardo, il muratore cui aveva insegnato a leggere e scrivere, agli anni del seminario.

E attraverso questi ricordi arriverà anche a fare i conti con la morte della madre e con il senso di colpa di non essere riuscito a esaudire il suo ultimo desiderio, quello di morire nel proprio letto.

Il film parte con una marcia sbagliata e fa fatica a prendere velocità, ma quando raggiunge la velocità giusta l'abbrivio emotivo è inarrestabile e non può lasciare indifferenti.

L'ultimo film di Almodovar è la chiusura di un cerchio, quello di una vita in cui il confine tra vita vissuta e cinema è stato sempre molto labile e che senza il cinema, la scrittura e quel teatro che esiste al di qua del cinema perché è - ancora di più - solo parola ed emozione non sarebbe stata altrettanto vera.

Se l'Almodovar di gioventù l'ho spesso considerato eccessivo ed esuberante, compiaciuto nel suo travestimento cinematografico che mi appariva quasi una maschera, ho invece amato perdutamente questo Almodovar della vecchiaia, demotivato, depresso, ipocondriaco, ma che - pur rimanendo totalmente fedele a sé stesso e al suo universo perfettamente riconoscibile - si svela finalmente nella sua umanità più diretta e impavidamente fragile, nelle sue debolezze più inconfessabili, ma anche nel suo profondissimo amore per la vita.

Applausi.

Voto: 4,5/5

Nessun commento:

Posta un commento

Lascia qui un tuo commento... Se non hai un account Google o non sei iscritto al blog, lascialo come Anonimo (e se vuoi metti il tuo nome)!