La Cina, come e più di tutti i mondi storicamente e culturalmente lontani dal nostro, mi affascina particolarmente. E tale fascino aumenta man mano che, nel tentativo di applicare alla sua storia e cultura la logica occidentale, la sua natura e identità continuano a sfuggirmi e a risultare per me incomprensibili.
Ultimamente la lettura di alcuni libri e graphic novel ha aperto degli squarci nella mia fitta ignoranza accendendo curiosità e desiderio di capire.
Per questo accetto la proposta di F. di andare a vedere al cinema I figli del fiume giallo, l'ultima fatica del cineasta cinese Jia Zhang-Ke, film d'autore da 142 minuti di quelli che piacciono molto ai critici e un po' meno al pubblico (anche se l'endorsement di Boille sull'Internazionale gioca molto a suo favore).
Ebbene non è certo un film di cassetta, il ritmo non è sicuramente scoppiettante e i riferimenti che contiene non sempre e non per tutti (compresa me) sono intellegibili. Molte delle cose che scrive Boille, e in particolare i richiami interni alla filmografia precedente del regista, non sono alla mia portata. Nonostante tutto ciò, ci si può abbandonare al fascino di questa narrazione e all'epica dell'amore di una donna, Qiao (interpretata da Zhao Tao, moglie e musa del regista), che attraversa innumerevoli peripezie ma resta fedele al suo uomo, Bin (Liao Fan) anche di fronte al suo abbandono.
La vicenda inizia - su uno schermo in 4:3 che inquadra facce vere e intense di operai che viaggiano in un piccolo autobus - nel 2001. Siamo in un piccolo paese minerario dove Qiao è la donna del piccolo boss locale che, per salvare lui durante una rissa con una banda rivale, usa la sua pistola e per questo finisce per 5 anni in prigione.
Nel 2006 Qiao esce dalla prigione cambiata, ma decisa a ritrovare il suo Bin, uscito di prigione prima di lei e legato ormai a un'altra donna. Qiao affronta una lotta per la sopravvivenza passando attraverso diversi incontri, alcuni anche poetici - come quello con il piccolo negoziante che si spaccia per ufologo - ma l'obiettivo resta quello di tornare a un passato, ormai trasformato dalla memoria e dalla nostalgia in qualcosa di mitico.
La caparbietà di Qiao non si arrenderà nemmeno di fronte al ritrovamento di Bin in una condizione molto diversa, un uomo fiaccato nell'animo e ridotto su una sedia a rotelle da un ictus.
Insieme a lui Qiao tornerà nel paese di origine di entrambi, nello Shianxi, dove i due sembrano ripartire dal principio.
Siamo però ormai nel 2018 e non solo sono cambiati loro, ma la Cina si è completamente trasformata, oggetto di un progresso che ha spazzato via il passato con le sue miserie ma anche con i suoi valori.
I figli del fiume giallo è una vera e propria epopea cinese, in cui nella figura di questa donna piena di contraddizioni, ma dalle mille risorse, si nasconde forse la metafora di un paese che di fronte a una trasformazione rapida e imperiosa fa fatica a ritrovare la propria identità, che non riconosce nel presente ma non trova più nemmeno nel passato.
Difficile per noi occidentali comprendere simboli, sfumature e allusioni che attraversano il film. Resta la percezione - grazie a Zhang-Ke - di poter gettare uno sguardo - certamente attonito - su un mondo che ci sfugge e che pure tanta importanza riveste rispetto agli equilibri geopolitici mondiali.
Un film che va visto riposati e armati di attenzione e pazienza, ma che a suo modo ripaga della fatica.
Voto: 3,5/5
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