Il festival del nuovo cinema francese è per me un appuntamento fisso della primavera romana. Amo molto il cinema francese, e il Rendez vous è l'occasione di sentire raccontare i film dalla voce dei loro ideatori e protagonisti e per vedere un po' di film in lingua originale, film tra l'altro in molti casi destinati a non arrivare nelle sale cinematografiche italiane.
Quest'anno il festival si svolge prevalentemente al Nuovo Sacher, che già lo aveva ospitato l'anno scorso, e solo pochi film sono invece proiettati nel bell'auditorium del Centre Saint Louis di Roma, che è una location che apprezzo particolarmente anche per la sua comodità.
Nonostante le intenzioni battagliere della vigilia, complice anche la disorganizzazione del Nuovo Sacher nella distribuzione dei biglietti, alla fine ho visto solo due film, molto diversi tra loro ma entrambi portatori di un'idea e/o un punto di vista originale sul mondo, e capaci di trasmetterci e aiutarci a capire non solo le vicende dei singoli, speciali e universali al contempo, ma anche gli umori di un'intera società, che pur così vicina ai nostri confini spesso ci sfugge nella sua complessità.
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Les invisibles
La serata inizia con una divertente chiacchierata con il regista del film, Louis-Julien Petit, per me sconosciuto e che invece mi ha incuriosito molto sia per il suo approccio che per l'attenzione ai temi sociali. Per questo ho accolto con grande entusiasmo la notizia che il Centre Saint Louis intende dedicare a questo giovane cineasta una retrospettiva nella sua futura programmazione cinematografica.
La sceneggiatura del film di stasera, Les invisibles, come ci racconta lo stesso regista, è tratta dal libro Sur la route des invisibles, femmes dans la rue, di Claire Lajeunie, autrice tra l'altro di un documentario sullo stesso tema, quello delle donne senza fissa dimora, persone due volte fragili e vulnerabili, sia in quanto donne, sia in quanto senza alloggio.
Il film di Petit non è però giocato sul registro drammatico, bensì sceglie un tono frizzante e giocoso, che ci fa ridere e sorridere per tutta la durata del film, ma attraverso queste situazioni spesso ai limiti della comicità ci fa nondimeno riflettere e commuovere, confermando il momento fecondo della commedia francese.
Les invisibles è la storia di un gruppo di donne senza fissa dimora, dai nomi - in realtà soprannomi - improbabili (Lady Di, Brigitte Macron, Edith Piaf), e delle assistenti sociali che lavorano con loro e per loro. La cosa buffa è che almeno per la prima mezz'ora del film ho fatto fatica a capire quali fossero le donne senza fissa dimora e quali le assistenti sociali, e i dialoghi talvolta surreali, ai limiti del nonsenso, mi hanno ulteriormente mandato in confusione. Mi sono detta che forse era la stanchezza, invece ho capito ben presto che in qualche modo si trattava di una scelta del regista. Le tre assistenti sociali, Manu (Corinne Masiero), Audrey (Audrey Lamy) e Hélène (Noémie Lvovsky), dimostrano di essere non meno 'folli' delle loro assistite quando - dopo la chiusura dell'Envol, il centro di assistenza dove vengono accolte queste donne - decidono di imbarcarsi nell'impresa quasi impossibile di reinserirle nella società e nel mondo del lavoro, per evitarne lo sradicamento a seguito del trasferimento in un centro lontano. Le donne e le loro assistenti iniziano questa avventura esilarante e surreale che mette tutte a nudo e che porta alla luce le fragilità, le potenzialità, le storie e i limiti di ciascuna. L'impresa si mostrerà in tutto il suo velleitarismo, ma le tre caparbie e scombinatissime assistenti sociali, donne che sacrificano al lavoro persino la vita personale, riusciranno in un obiettivo più alto, quello di restituire dignità e identità a queste persone cancellate dalla società e tenute ai margini del consesso civile. Gli sguardi fieri con cui sfileranno sulla loro passerella di materassi sarà la loro commovente, per quanto transitoria, vittoria su un mondo che punta alla pulizia sociale prima che alla comprensione delle persone.
Voto: 3,5/5
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Marche ou crève
Il film di Tatiana Margaux Bonhomme, ispirato alla propria vicenda personale, è un film asciutto e sincero. Di fronte a un tema complesso e delicato com'è quello della disabilità, la regista sfugge alla retorica dei buoni sentimenti e non ha paura di portare allo scoperto le contraddizioni connesse a una situazione di questo tipo.
Elisa (Diane Rouxel) vive in una casa in mezzo alle montagne insieme a suo padre François (Cédric Kahn), con cui condivide la passione per l'arrampicata, e a sua sorella Manon (la straordinaria Jeanne Cohendy), che ha una grave disabilità fisica e psichica. Durante l'estate in cui Elisa deve scegliere se iscriversi al liceo a Montpellier, sua madre ha deciso di allontanarsi dalla famiglia e di andare a vivere da un'amica, a seguito di una divergenza con il marito. La madre, dopo essersi occupata per vent'anni della figlia disabile, vorrebbe metterla in un istituto ma suo padre non è d'accordo.
Elisa, che è molto legata a sua sorella, vive la decisione della madre come un atto di egoismo e tradimento nei confronti della famiglia, e decide di aiutare come può il padre, sia assistendo Manon, sia valutando la possibilità di non continuare gli studi e continuare il lavoro stagionale nelle campagne vicino casa.
Man mano che il tempo passa, Elisa si rende conto che il carico pratico ed emotivo della gestione di una persona totalmente dipendente dagli altri consuma le energie, la pazienza e la volontà di chi gli sta accanto, mettendo in discussione gli equilibri del presente e aprendo interrogativi senza risposta sul futuro.
L'ostilità nei confronti della madre a poco a poco scema, ed Elisa scopre che anche la dedizione totale del padre alla sorella ha il suo rovescio della medaglia nella ricerca di un'esclusività del ruolo e di una minore attenzione verso la stessa Elisa, che nel frattempo si è infilata in una storia con un ragazzo (sposato?) che a un certo punto la scarica impunemente.
L'intera famiglia dovrà riconsiderare la possibilità di avere l'aiuto professionale di un istituto, accettando una cura non esclusiva verso la figlia e il potenziale rischio che non sempre tutto sarà fatto alla perfezione. Del resto, come un amico assistente sociale dice a Elisa, questo è un rischio che esiste per tutti nella vita - compresa Manon - ossia la possibilità di incontrare e fare i conti con chi non fa bene il proprio lavoro.
Quella di Margaux Bonhomme è una riflessione delicata ma senza infingimenti sull'onere per le famiglie della cura di chi non ha - o non ha più - alcuna autonomia, e sulla necessità ineliminabile di cercare un equilibrio tra i bisogni di tutte le persone in gioco, perché la strada del sacrificio per il sacrificio a tutti i costi e della non condivisione della cura e della responsabilità - anche al di fuori dei confini familiari - non è necessariamente la scelta eticamente più corretta e più altruistica, come una certa morale di corto respiro ci spinge a pensare.
Voto: 3,5/5
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