Un uomo con un marcato accento dell'Est Europa è alla ricerca di una stanza dove dormire per la notte. Nel frattempo vaga per un'anonima città, tra periferie, strade, ponti e metropolitane, bagnato dalla pioggia. In questo viaggio notturno incontra degli interlocutori cui racconta le sue vicissitudini, le sue ansie, le sue paure, le sue aspirazioni, cercando conforto e complicità, forse anche impietosendo per ottenere subdolamente un aiuto.
Chi è quest'uomo? Certamente uno straniero per la terra dove vive. Certamente un diseredato che vive arrangiandosi e sopravvive come può. Il suo mondo è fatto di altri emarginati come lui, prostitute, neri, piccoli delinquenti, ognuno impegnato nella sua lotta per sopravvivere, ognuno pronto ad approfittare della debolezza altrui per prevaricare.
Questo mondo ha le sue leggi e le sue dinamiche interne che ne fanno una specie di universo parallelo, quasi trasparente rispetto alla società "ordinaria" e "ordinata".
L'uomo che racconta se stesso in questo monologo, La notte poco prima delle foreste, scritto da Bernard-Marie Koltès e portato in scena all'Ambra Jovinelli per la regia di Lorenzo Gioielli e la magistrale interpretazione di Pierfrancesco Favino, ci chiama in causa, perché l'interlocutore sul palco non c'è e dunque gli interlocutori siamo tutti noi.
Ad ogni spettatore questa chiamata in causa trasmetterà sensazioni diverse, secondo le proprie esperienze e il proprio modo di essere, e produrrà certamente dei conflitti interiori tra la reazione istintiva e quella ragionata.
Personalmente di fronte a quest'uomo e alle sue parole provo alternativamente compassione, senso di colpa, diffidenza, perplessità, meraviglia. A volte mi sento presa in gira e penso che certamente mi sta raccontando un sacco di fandonie per farsi compatire, altre volte sono colpita dalla profondità del suo pensiero e dalla poeticità delle storie sgangherate che fluiscono dalla sua bocca, altre volte ancora sono combattuta tra l'istintiva diffidenza e l'empatia verso una condizione che lui riesce a farmi sentire sotto la pelle e rispetto a cui vorrei fare qualcosa.
Penso che là fuori, fuori da quel mondo ordinato e protetto nel quale viviamo, esiste un mondo parallelo con cui cerchiamo di avere il minor numero di contatti possibili, tenendocene il più possibile a distanza. Ma quando quel mondo - dal palco di un teatro - ci parla e si racconta siamo spiazzati. Non abbiamo le parole, i modi, gli strumenti per interpretare quest'uomo; o meglio, lo capiamo perfettamente e allo stesso tempo non ne comprendiamo le intenzioni e i sentimenti profondi, perché siamo vittime dei nostri pregiudizi e delle nostre esperienze di distanza.
Nel mondo reale questi incontri non avvengono, o avvengono solo raramente e certamente in modo rapido e superficiale. Koltès ci consente di sperimentare un ascolto e di comprendere quanto siamo impreparati come interlocutori.
Voto: 3,5/5
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