Dopo il successo di Perfetti sconosciuti (una sorpresa positiva anche per me), Paolo Genovese torna al grande schermo con un nuovo film su cui si sono create inevitabilmente molte aspettative da parte del pubblico.
Genovese si è fatto affascinare da una serie TV americana, A booth at the end, e ne ha realizzato la versione italiana in forma di lungometraggio. The place - come è annunciato già dal titolo - è un film con un impianto fortemente teatrale: tutta l'azione avviene all'interno di un caffè, dove a un tavolino siede un uomo con un'agenda (Valerio Mastandrea). A quel tavolino si siedono nel corso delle giornate molte persone che con quest'uomo stringono veri e propri "patti col diavolo": in cambio della realizzazione di un desiderio (la guarigione di un figlio o di un marito, una rinnovata bellezza, un ritorno di fiamma, il recupero della vista, una notte con una modella ecc.) l'uomo - guardando sulla sua agenda - assegna a ciascuno dei compiti (mettere una bomba in un locale, uccidere una bambina, fare una rapina ecc.) al termine dei quali il desiderio sarà realizzato.
A osservare questo andirivieni la cameriera del bar (Sabrina Ferilli) che è incuriosita e affascinata da quest'uomo e cerca di saperne di più, fino a diventare il personaggio chiave dell'enigmatico finale.
Il tema di fondo del film non è nuovo ed è riassunto dalla frase di lancio della serie TV nonché del film: "cosa siete disposti a fare per realizzare i vostri desideri?", che è come dire "quanto del vostro lato oscuro siete disponibili a tirare fuori per ottenere quello che volete?".
Lo sviluppo del film - in cui le storie dei singoli personaggi, per caso o per volontà dell'uomo che regge le fila dei loro destini, si intrecciano - mostra l'impatto di queste richieste apparentemente impossibili sulle persone e la catena di conseguenze che le loro azioni determinano non solo sugli altri, ma anche su loro stessi.
Personalmente ho interpretato il film come una riflessione su quello spazio delle nostre esistenze che si colloca tra le cose che non possiamo cambiare (perché non dipendono da noi) - e che dunque possiamo solo accettare - e invece la responsabilità individuale che sta a fondamento delle scelte verso di noi e gli altri.
La cosiddetta "preghiera della serenità" recita: "Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza". Evidentemente, uno dei grandi conflitti interiori dell'essere umano da sempre sta proprio nel riconoscere questa differenza e nel comportarsi di conseguenza.
C'è dunque della materia interessante di riflessione in questo film; devo però dire che il risultato mi è sembrato meno riuscito che in Perfetti sconosciuti.
Innanzitutto, la staticità e la ripetitività dell'impianto narrativo dopo un po' risultano stucchevoli (come ha commentato ironicamente un signore alle mie spalle al cinema "Un po' troppo dinamico per i miei gusti!"). Inoltre alcune sequenze tra un "nero" e un altro sono brevissime, caratterizzate da poche battute quasi apodittiche: in un film di questo genere - a parte la recitazione degli attori - è la sceneggiatura che fa la differenza, e qui secondo me la sceneggiatura risulta pretenziosa e didascalica allo stesso tempo. Molte battute sembrano essere state messe lì quasi appositamente per essere profonde e farci riflettere e interrogare, ma alla fine per gran parte comunicano delle sostanziali banalità.
Tutto resta piuttosto in superficie, una galleria di personaggi che raramente acquistano spessore e che si configurano solo come tante facce della stessa medaglia. E - devo ammettere - il finale continua per me a non avere una spiegazione del tutto logica e plausibile.
Voto: 3/5
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