Un molo dove migliaia di soldati - assediati dal nemico - si affollano nel tentativo di fuggire da Dunkirk e tornare in patria. Il mare nel quale un uomo con suo figlio e un amico del figlio naviga sul suo piccolo yacht per andare a salvare i soldati dall'altra parte della Manica. Il cielo nel quale tre piloti con i loro Spitfire tentano di respingere i bombardamenti a terra della flotta aerea nemica.
Tre vicende parallele che iniziano in momenti diversi (la didascalia recita: una settimana, un giorno, un'ora) e poi convergono intersecandosi e sovrapponendosi e infine congiungendosi in un finale unico.
La cosa secondo me più straordinaria di Christopher Nolan è che riesce a fare film molto diversi tra di loro, eppure la sua cifra stilistica (per esempio, l'uso del tempo nella narrazione) e la sua - diciamo così - poetica cinematografica sono sempre perfettamente riconoscibili.
In Dunkirk Nolan ci mette addosso tutta l'ansia del fronte, la sensazione che la vita sia costantemente appesa a un filo, che non valga niente, che un istante ci sai e quello successivo non ci sei più, e che puoi lottare con tutte le tue forze per salvarti ma è solo la fortuna o il fato a decretare se sopravviverai o meno.
Nella prima ora del film siamo completamente immersi nella follia della guerra, dove l'unica legge che vige è mors tua, vita mea. Intorno a noi solo rumore di aerei, esplosione di bombe e paura, tantissima paura. La difesa della patria, l'umanità, l'eroismo hanno pochissima cittadinanza qui. Persino sulla barca dell'uomo che tenta di salvare i soldati in mare c'è una qualche forma di disumanità nell'ossessione che rende per l'uomo prioritario rispetto a tutto trovare un qualche rimedio alle morti provocate dalla guerra.
Poi invece a un certo punto - mentre le storie parallele si incrociano e convergono, le barche dei civili arrivano ad aiutare i soldati a fuggire e gli Spitfire hanno la meglio sul nemico - a poco a poco si fa strada la retorica della guerra: il pilota che mette a repentaglio la propria vita per portare a termine il suo compito, l'alto ufficiale della Marina che resta sul molo per aiutare la fuga dei francesi quando tutti gli inglesi sono ormai scappati, il ritorno in patria dei sopravvissuti festeggiati come degli eroi e l'articolo di giornale che riporta le parole con cui Winston Churchill celebra l'episodio di Dunkirk e ne fa un'occasione di riscatto e un episodio chiave per la fase successiva della guerra.
Lì per lì il prorompere di questa retorica che va ad occupare interamente il campo della narrazione mi ha infastidito e mi è sembrata davvero fuori luogo. A poco a poco però la mia interpretazione del film è cambiata, in particolare durante la lettura dell'articolo del giornale con le parole di Churchill. È come se Nolan volesse dirci che la guerra ha due facce: una è l'orribile e disumana realtà dei soldati che muoiono come mosche e che contano solo come numeri (si insiste molto su quanti ne vengono portati in salvo), l'altra è la narrazione della guerra, ossia la retorica che trasforma la realtà in funzione della strategia, strumento essenziale per determinare le sorti del conflitto.
A Dunkirk la realtà è la storia di una fuga e di una lotta per la sopravvivenza per sfuggire a morte certa. Nella narrazione, invece, a Dunkirk si celebra lo spirito di una nazione che resiste fino all'ultimo e che muove anche la società civile in soccorso dei suoi soldati (le inquadrature delle barche dei civili che arrivano sembrano dei manifesti di propaganda; ma è significativa da questo punto di vista anche la vicenda del ragazzo morto in barca e del successivo necrologio). Ed è questa narrazione che costituisce lo scarto verso il cambiamento delle sorti del conflitto nonché il primo tassello verso la vittoria.
Sembra dunque che Nolan voglia dirci che la retorica è totalmente funzionale, parte integrante della strategia della guerra, senza la quale della guerra rimangono solo il senso di delusione, di fallimento e di sconfitta dei soldati sopravvissuti e la morte di tutti quelli che non ce l'hanno fatta.
Voto: 4/5
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