Nell’ambito della rassegna “Internazionale a Roma”, una serie di documentari su attualità e diritti umani selezionati da Internazionale e proiettati al Palazzo delle Esposizioni, vado a vedere con A. Future baby, il documentario dell’austriaca Maria Arlamovsky dedicato al tema della riproduzione umana e delle tecnologie che la stanno progressivamente trasformando.
La regista si confronta con pazienti, medici, sociologi, bioetici, donatori e donne che hanno accettato di portare in grembo per nove mesi il figlio di qualcun altro. La sua indagine attraversa diversi paesi, in particolare in Europa e in America settentrionale, e si confronta con tanti punti di vista differenti su come si sta evolvendo la tecnologia della riproduzione: dalla FIVET al cosiddetto utero in affitto, con tutte le varianti che questo comporta in riferimento alla provenienza di ovuli e spermatozoi, che possono essere prelevati dalla coppia oppure provenire da donazioni.
Questo viaggio arriva anche a gettare uno sguardo sul futuro, in particolare alle prospettive legate alla possibilità di realizzare l’intero processo della riproduzione all’esterno del corpo umano, attraverso l’utero artificiale, con tutti gli interrogativi che si porta dietro.
Lo sguardo della regista - che pure cerca di mantenersi equidistante da tutte le posizioni e di documentarle tutte – soffre inevitabilmente di un bias legato innanzitutto al fatto di confrontarsi quasi esclusivamente con il mondo occidentale e con le società avanzate, in secondo luogo al fatto che non approfondisce a sufficienza il significato e le motivazioni di quel bisogno di maternità e paternità che spinge tante coppie e tante persone a ricorrere a queste tecniche, anziché prendere in considerazione per esempio l’adozione ovvero rinunciare alla genitorialità.
Il documentario fa certamente il suo lavoro nell’offrire strumenti di conoscenza di un mondo complesso e che può risultare in qualche modo incomprensibile a chi non ne è coinvolto in prima persona o molto da vicino, e si mette con onestà di fronte alle due facce della medaglia: da un lato una tecnologia medica che evolve rapidamente e che rende possibili cose prima impensabili, dall’altro gli interrogativi etici che inevitabilmente l’umanità è chiamata a porsi di fronte a queste prospettive.
Non si esce dal cinema avendo opinioni più chiare o posizioni più convinte su questi temi, o almeno a me non è successo così. Semmai si ha la sensazione che il progresso della tecnologia medica è inarrestabile e ha certamente delle ricadute positive e importanti per la vita umana, e proprio per questo – come afferma uno dei medici intervistati – non ha senso negare questo progresso, mentre invece è fondamentale cominciare a porsi delle domande, a sviscerare le implicazioni, a definire i confini per noi accettabili, pur sapendo che lì dove una tecnologia esiste ci sarà sempre una persona che vorrà utilizzarla (per ragioni etiche o no) e un luogo dove sarà consentito farlo.
La storia dell’umanità procede così. E – sia chiaro – non è detto che proceda sempre verso il meglio, visto che l’uomo nel tempo ha dimostrato anche di essere in grado di creare tecnologie che mettono a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità. Ma proprio per questo – come società e come individui – siamo chiamati a interrogarci e a riflettere su tutte le possibilità che la medicina – in questo caso – offre e a cercare di volta in volta un equilibrio e/o un compromesso accettabile fra l’universo di ciò che è possibile e l’universo di ciò che è giusto e accettabile. Confine mobile, difficilissimo, soggettivo, ma di fronte al quale non possiamo tirarci indietro.
Voto: 3/5
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