Claudio Giovannesi accende la telecamera su qualche mese della vita di Daphne (la non professionista Daphne Scoccia), una ragazza di forse 17 anni che vive di piccoli furti e per questo finisce in un carcere minorile di Roma.
Di Daphne non sappiamo quasi niente; man mano che il tempo passa alcuni dettagli della sua vita emergono: Daphne ha un padre, Ascanio (Valerio Mastandrea), che è ai domiciliari dopo 7 anni di carcere e che faticosamente sta cercando di farsi una nuova vita insieme a Stefania, una rumena con un figlio di 11-12 anni. Al termine del film molte domande resteranno però senza risposta: perché suo padre è stato in carcere? Dov'è la madre di Daphne se è ancora viva?
Questo perché il film di Giovannesi appare costruito mantenendo al minimo la sovrastruttura cinematografica, mostrandoci quello che accade mentre accade ed evitando tutto ciò che possa collocare lo spettatore in una posizione di superiorità rispetto alla protagonista. Anzi, lo spettatore di Fiore è in una posizione di sostanziale minorità perché Daphne ha un passato e un percorso emotivo che non ci viene né mostrato né raccontato.
Quello che vediamo è solo il presente di un'adolescente che condivide con gli altri adolescenti il bisogno di ribellione, il desiderio di libertà, la necessità di amare e di essere amata, ma che certamente prima degli altri ha conosciuto la durezza della vita e l'arte di arrangiarsi, e in quello stato di privazione di libertà che è il carcere mostra entrambi questi aspetti di sé.
Daphne appare dunque sicura di sé, a tratti fin troppo adulta per la sua età, avvolta in una corazza inscalfibile, ma durante l'esperienza del carcere tutto il suo mondo emotivo di adolescente viene fuori in varie circostanze, non solo nella storia d'amore con Josh (Josciua Algeri), ma anche nelle amicizie, nei conflitti, nella solitudine.
La telecamera sta incollata addosso ai personaggi, in particolare alla protagonista, e anche fisicamente ci dà la sensazione dell'orizzonte ristretto nel quale si muove.
Quello però che ne viene fuori è il ritratto sincero e al contempo affettuoso di un'umanità ai margini nella quale nessuno è veramente cattivo: ognuno dei protagonisti del film fa quello che può per conquistarsi una vita "normale", sebbene le sabbie mobili di un contesto e di un passato devianti continuamente li trascinano a fondo. Persino le compagne di galera, nonostante alcune forme di bullismo, alla prova dei fatti mostrano tutta la loro fragilità, così come le guardie e le assistenti sociali quando si fanno rigide e punitive sembrano esserlo solo perché il carcere è un posto in cui senza la disciplina le situazioni degenerano facilmente. Il carcere appare così il posto di un esperimento sociale nel quale inscenare una sorta di lotta per la sopravvivenza, che ne supera però i confini per estendersi anche alle vite di queste persone fuori dalle sue mura. Però ci ricorda che l'umanità potentemente si affaccia in qualunque circostanza, come un fiore nel deserto.
Non sappiamo dove andranno le vite di Daphne e di Josh, né quella di Ascanio e degli altri, perché la telecamera come si è accesa a mostrarci questo mondo così si spegne a un certo punto senza gettare uno sguardo sul futuro o aprire una prospettiva. Lo spettatore ne esce un po' accartocciato su se stesso, con la voglia fortissima di scrivere un futuro di riscatto sapendo che nella realtà quasi certamente non ci sarà.
Voto: 3/5
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