Il film di Laura Bispuri racconta la storia di Hana/Mark (una sempre eccellente Alba Rohrwacher) e lo fa a partire dal momento in cui la protagonista decide di partire dal suo paesino tra le montagne dell’Albania alla volta dell’Italia. Da questo momento in poi la narrazione si svolge a cavallo tra presente e passato, tra Italia e Albania, in un continuo rimando e mescolanza di situazioni vecchie e nuove che si riflettono anche nel modo in cui i protagonisti – tutti albanesi – alternano l’uso della loro lingua madre con l’italiano.
L’inizio del film ci mostra una donna in abiti e atteggiamenti maschili immersa in un paesaggio aspro e bello al contempo, che appare in qualche modo fuori dal tempo e dallo spazio, in una società arcaica che si fa fatica a collocare cronologicamente nella contemporaneità. Mark – così si fa chiamare la protagonista – parla pochissimo e il senso di attesa e di spaesamento dello spettatore non è inferiore a quello che la protagonista sembra provare durante il viaggio che la porterà in Italia alla ricerca di Lila.
Quest’ultima vive in un piccolo appartamento di una qualche provincia italiana non ben identificata insieme al marito, anche lui albanese, e alla figlia, quasi certamente nata in Italia e perfettamente integrata nel paese di adozione dei genitori.
Poco a poco e – in buona parte attraverso le immagini - comprenderemo chi è Mark – il cui vero nome è Hana - e che rapporto ha con la donna che è andato a cercare al di là del mare, che cosa ha portato queste due donne lontane, l’una fuggita molti anni prima dall’Albania e l’altra invece rimasta fedele alla comunità di provenienza anche nella “scelta” del ruolo di “vergine giurata”.
Assisteremo poi al lento processo di disgelo che, sotto la ruvidezza di Mark, svelerà l’animo sensibile e femminile di Hana, alla sua faticosa ma tenace riconquista della propria identità, degli affetti e della vita cui ha rinunciato.
Vergine giurata è un film con una capacità espressiva ed emotiva che va molto al di là delle parole, anzi non ne ha bisogno, perché riesce a caricare di significati inespressi e di spessore umano paesaggi, sguardi, cerimonie arcaiche, piccoli gesti, traducendone la potenza in una forma di comunicazione.
Film che non cede una virgola al banale, al didascalico, all’intellettuale, al pretenzioso. Duro, potente, diretto, come quel paesaggio con le montagne altissime coperte di neve che costringe ad avere sempre con sé un fucile per sopravvivere.
Voto: 4/5
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