La regola dell’equilibrio / Gianrico Carofiglio. Torino: Einaudi, 2014.
A mio modesto parere, non certo uno dei migliori libri di Carofiglio, anche se tutti aspettavamo con tale trepidazione la nuova avventura dell’avvocato Guido Guerrieri che – nonostante tutto – lo scrittore ci ha fatto un bellissimo regalo di Natale.
Cosa c’è che non va? Innanzitutto, la trama, molto esile, quasi inesistente. E direi fin troppo classica, a tratti un po' banale. Guerrieri deve difendere dall’infame accusa di corruzione l’amico giudice Larocca. E in questo è aiutato dall’amico poliziotto Carmelo Tancredi (collocato quasi a cornice della storia) e dall’investigatrice privata Annapaola Doria, un donna forte e affascinante di cui inevitabilmente e un po' prevedibilmente Guido si innamorerà.
Ciò detto, intorno a questa piccola storia c’è il carattere ombroso e fin troppo “pippaiolo” (lasciatemi passare il termine) di Guido, che riflette su se stesso, sulla vita, sulla morte, sulla giustizia, sul mestiere di avvocato e su quello di giudice. Un profluvio di parole, di pensieri ad alta voce, di “avrei voluto dire, ma non ho detto”, “avrei voluto fare, ma non ho fatto”. Parole e pensieri spesso indirizzati a Mr Sacco, il sacco da boxe che pende al centro del suo salotto, altre volte rivolti direttamente al lettore (cosa che mi è sembrata un inedita nei romanzi con Guerrieri, ma forse ricordo male, e che comunque mi è risultata un po’ fastidiosa in quanto scopre in qualche modo il gioco del narratore e dunque la finzione, togliendo sincerità alla narrazione).
La parte più bella del romanzo – e che in qualche modo mi fa sempre riconciliare con Carofiglio – è quella in cui emerge il rapporto strettissimo tra il protagonista e la terra a cui appartiene: la Puglia, il mare, la città di Bari. Guido Guerrieri sarebbe incomprensibile senza Bari.
E in questo senso, secondo me, le pagine più belle e più vere del romanzo sono due: quella in cui Guido - mentre va in macchina verso Lecce percorrendo la statale 16 - decide di uscire sulla complanare tra Cozze e San Vito per fare una passeggiata nei luoghi dove da ragazzo andava al mare, Pietra Egea, dove trova tutto esattamente come se lo ricordava. Uno dei luoghi che amo di più della mia terra, a pochissimi chilometri da dove sono nata anch’io, dove il blu del mare, il rosso della terra, l’argento degli ulivi, il verde intenso delle insalate e il bianco della calce dei trulli producono uno scenario poetico di una bellezza irripetibile.
Un’altra delicata pagina del libro è la serata/nottata in cui Guido - che non riesce a dormire - va all’Osteria del caffellatte, una libreria-caffetteria di Bari che sta aperta sera e notte, e dove sorseggiando un caffè o un cocktail si possono leggere o acquistare libri. Qui Guido comincia a scambiare pensieri e quasi confidenze con una donna di passaggio per Bari per un convegno; uno di quegli incontri in cui si condivide – sebbene e forse solo perché fugacemente - qualcosa di profondo, delle sensazioni, dei sentimenti. Momenti in qualche modo magici, che riconciliano con l’esistenza.
Per il resto è Carofiglio, e noi lo amiamo a prescindere. E così per farvi venire voglia di leggerlo, nonostante le premesse, qui di seguito alcuni passaggi che più mi hanno colpito:
[…] stavo facendo quello che avevo sempre trovato patetico negli altri. […] Rimpiangere il passato come se fosse l’età dell’oro. (p. 5)
Li avevo comprati io, quei libri. Quando entro in una libreria i miei freni inibitori si disattivano. Posso acquistare di tutto, salvo poi non ricordare perché e chiedermi quale entità mi abbia posseduto nella mezz’ora trascorsa fra gli scaffali. (p. 43)
A volte la prevedibilità ossessiva dei miei spostamenti, dei loro tempi e dei loro ritmi mi dà un senso di oppressione. L’idea è che la mia vita sia come la somma dei percorsi della pallina di un vecchio flipper. A prima vista, se non eri esperto del gioco, ti sembrava che ci fossero un sacco di possibilità, imprevisti, sorprese. Poi, a mano a mano che giocavi – magari era il flipper del bar sotto casa, o della spiaggia, o del biliardo vicino alla scuola – ti accorgevi che i percorsi si ripetevano e tu li conoscevi tutti, e dopo un po’ ti passava la voglia di giocare con quel flipper e andavi a cercarne un altro. (p. 103)
Era una nostalgia strana, perché il ricordo doloroso della giovinezza si mischiava a una sensazione diversa, come l’impressione di aver sprecato il mio tempo, di non aver fatto quello che avrei dovuto, di essermi accontentato per paura, vigliaccheria, pigrizia.
Mi ricordai una frase che avevo letto qualche settimana prima: It’s never too late to be who you might have been. Non è mai troppo tardi per essere chi saresti potuto essere. (p. 112)
A volte, nelle perquisizioni come nella vita, passi davanti a qualcosa di decisivo e non te ne accorgi. Perché non sai cosa cercare o perché magari quel qualcosa è troppo evidente per essere visto. Nelle perquisizioni, come nella vita, non è un problema di tecnica, è un problema di occhi e di tempo. (p. 131-132)
Le cose troppo sensate dette sul mio conto mi mettono un po’ in ansia. (p. 140)
Com’è possibile che tu abbia amato così tanto una persona, che tu abbia sofferto così tanto per lei, che tu abbia riso così tanto con lei e che ora tu sia così lontano da lei? (p. 143)
Era una bella giornata di primavera. Alberi, nubi grandi e amichevoli, il vento, il cielo, azzurro chiarissimo e abbagliante verso il sole, intenso, quasi blu, dalla parte opposta dell’orizzonte; la calce dei trulli, il marrone delle zolle, il verde degli orti, il rosso a macchie dei papaveri, il giallo e bianco a puntini delle piccole margherite. (p. 146)
«Una fondamentale qualità umana è la capacità di sostenere simultaneamente due idee opposte senza perdere la capacità di funzionare». (p. 148-149)
[…] c’è un modo sicuro di fallire in tutto: fare contemporaneamente – e male – più cose. (p. 153)
Non l’avevo chiamata. Non dovevo nutrire aspettative irrealistiche – mi dissi esattamente questa ridicola frase. (p. 202)
Per un paio di giorni avevo sperato, negandolo a me stesso, che lo facesse. Poi mi ero detto che era meglio così.
Una delle espressioni più sospette e false che io conosca: meglio così. (p. 209)
Qualcuno ha detto che il mondo è una confusione rombante e ronzante, resa tollerabile solo dalla nostra capacità di ignorare quasi tutto quello che c’è intorno a noi. (p. 227)
Ah, volevo chiederti una cosa, ti seccherebbe se adesso ce ne andassimo da qualche parte a fare l’amore? Intendo proprio adesso. Dove preferisci tu, magari non da te, che è un po’ lontano, ma casa mia è a dieci minuti da qui. Dopo se vuoi parliamo. Dopo. (p. 230)
La buona vecchia terapia della parola, nel senso di raccontare quello che ti rode, funziona sempre. Buttare fuori tutto. Una specie di idraulica delle emozioni. Sturare l’ingorgo, roba del genere. (p. 231)
Camminavamo vicini, con il ritmo pacifico di chi non ha niente di preciso da fare e in quel breve tempo che si è dato può ignorarlo, il tempo. (p. 234)
Feci un sorriso imbarazzato. Non so mai come rispondere ai complimenti. (p. 234)
- Perché non mi hai mai chiamato in questi giorni?
- Neanche tu mi ha chiamato.
- Era una gara? (p. 237)
Gli eventi importanti della mia vita sono accaduti per caso. Se c’era un disegno non me ne sono accorto. (p. 244)
Tutti mentono. Chi dice di non farlo mai o è un cretino o è più bugiardo degli altri. La salute mentale consiste nel trovare un punto di equilibrio fra verità e menzogna. Pensare di dovere – e di potere – dire sempre la verità è un’allucinazione da dementi. (p. 248)
«Chi mente a sé stesso e presta ascolto alle proprie menzogne arriva al punto di non distinguere più la verità, né in sé stesso, né intorno a sé». La citava spesso mio nonno, e diceva che la regola dell’equilibrio morale consiste nell’opposto del comportamento descritto in questa frase. Consiste nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri. (p. 261)
La vera unità di misura del tempo sono gli accadimenti inattesi, quelli che cambiano tutto e ti fanno capire che tante altre cose, prima, sono successe e non te ne eri accorto, e avresti dovuto; e tante cose che davi per scontate non succederanno più. (p. 276)
Voto: 3/5
Ma che dici il se va con l'accento, Sé stesso e non se non vieni vengo io
RispondiEliminaLa questione è stata da poco chiarita dall'Accademia della Crusca:
Eliminahttp://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/accentazione-pronome-stesso
"In conclusione, sebbene negli attuali testi di grammatica per le voci rafforzate se stesso, se stessa e se stessi non sia previsto l'uso dell'accento, è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica che ne possa stabilire il maggiore o minore grado di correttezza. Si raccomanda di tener conto di questa "irrilevanza" specialmente in sede di valutazione di elaborati scolastici e affini."
Quindi non è sbagliato in nessuno dei due modi. Toglierò la mia considerazione dal testo a questo punto.
Mi colpisce moltissimo la capacità di mettere in evidenza luci e ombre, quando ad esempio riconosce e descrive le emozioni contraddittorie, che possono suscitare le figure disoneste che sono interpreti di un misfatto. Ed inoltre, con coraggio, riesce ad assegnare questi fatti anche in un contesto in cui generalmente non si ha alcuno spazio di elaborazione/comprensione …. quale può essere una donna che ha promosso denuncia di violenza sessuale. Con il racconto dei fatti, e le domande rivolte alla donna che ha ingiustamente accusato un uomo, alla fine del capitolo emerge che non c’è stata la violenza sessuale. E all’inizio del capitolo seguente riesce a scrivere ….”””Il presidente disse alla Di Cosmo che poteva andare. Lo disse con un tono che voleva essere severo, ma non gli venne bene. Il senso di disagio, di sconfitta che comunicava quella donna, aveva prevalso sull’indignazione.”””
RispondiEliminaGrazie del tuo commento. E bravo Carofiglio! :-)
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