Tutto sua madre è una specie di one man show. Sì, perché Guillaume Gallienne ne è il regista, lo sceneggiatore e il protagonista in ben due ruoli, quello di se stesso (Guillaume appunto) e quello di sua madre.
Gallienne porta al cinema la sua pièce teatrale che tanto successo ha avuto in Francia e fa un'operazione integralmente autobiografica, presentandoci il se stesso attuale (quello che porta in giro per i teatri la sua storia) e raccontandoci per immagini come è arrivato fin lì, attraverso un'adolescenza e una giovinezza durante la quale è passato prima attraverso un'identificazione totale con la figura materna e poi - faticosamente e in parte dolorosamente - al distacco dal modello materno e alla scoperta della propria identità e delle proprie scelte di vita.
L'originalità di questo racconto si apprezza principalmente da due punti di vista: innanzitutto, la leggerezza e l'umorismo mai volgare con cui Gallienne si racconta, senza togliere nulla della complessità psicologica né dello spessore emotivo alla situazione rappresentata; in secondo luogo, l'intelligenza e la finezza con cui ribalta il topos (letterario e cinematografico) dell'adolescente che, quando si riconosce omosessuale, deve fare i conti con il mondo esterno e scegliere se venire allo scoperto, per raccontarci invece il percorso di chi è stato etichettato fin da piccolo - sia dalla famiglia sia dal mondo circostante - come diverso e dovrà in qualche modo arrivare a farsi accettare ben più "normale" di quello che gli altri si sono sempre aspettati e hanno deciso per lui.
Ci sono molti temi delicati in questo film: il rapporto tra madre e figlio e la dinamica per certi versi imperscrutabile che, attraverso i salti mortali di un amore totalizzante ma incapace di trovare una sua maturità emotiva, produce condizionamento e manipolazione, nel desiderio reciproco di essere amati e accettati; la relatività del concetto di diverso (la diversità è la distanza tra quello che siamo veramente e quello che gli altri si aspettano da noi) e la difficoltà di lottare contro i pregiudizi per affermare ciò che si è, in qualunque direzione questo si esplichi; la necessità di trovare la propria strategia per rompere la bolla nella quale si nasce e si cresce e per guardare se stessi dall'esterno, prima con gli occhi degli altri e poi con i propri occhi, percorso inevitabile per nascere quella seconda volta che ci restituisce unità e senso.
Guillaume Gallienne sembra aver compiuto questo percorso non tanto nel chiuso della stanza di uno psicanalista, né nella solitudine della propria interiorità, bensì portando il proprio disincantato flusso interiore in scena, davanti al mondo degli spettatori, e probabilmente questo ha rappresentato per lui la vera occasione per esorcizzare, sublimare e nello stesso tempo trovare composizione alla propria vita.
Gallienne dimostra un indubitabile talento nel compiere questa operazione.
Dopo un'opera così personale e per certi versi "autoreferenziale" nel senso buono del termine, lo aspettiamo alla prova di un'opera seconda in cui dovrà dimostrare di saper raccontare con lo stesso acume e la stessa maestria anche storie di natura non così strettamente autobiografica.
Bella anche la colonna sonora.
Voto: 3,5/5
venerdì 28 febbraio 2014
mercoledì 26 febbraio 2014
Full color / Franco Fontana. Mostra. Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 15 febbraio - 18 maggio 2014
Approfittando di un weekend nel Nord Est e di una domenica di pieno sole, io e C. abbiamo deciso di fare un giro a Venezia per andare a vedere la mostra di Franco Fontana, Full color, attualmente in corso all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti a Palazzo Franchetti.
Venezia è in pieno trip carnevalesco e nei momenti in cui si incontra la fiumana di gente che attraversa i percorsi principali si fa decisamente fatica a camminare. Però è bello perdersi nei suoi vicoli, girare in tondo senza avere la più pallida idea di dove ci si trova, fare un giro pazzesco per raggiungere un posto che in linea d’aria sarebbe stato vicinissimo.
Insomma, dopo il bagno di folla (ma anche due bruschette, una birretta e due frittelle veneziane), arriviamo alla sede della mostra.
Non conoscevo Franco Fontana, anche se forse avevo già visto qualcuna delle sue straordinarie foto, che possono essere tranquillamente scambiate per quadri. La mostra inizia con una impressionante serie di paesaggi, scatti fatti in prevalenza in Puglia e Basilicata tra gli anni Settanta e Ottanta. Geometrie di colori che producono astrazioni alla Rothko, mentre invece sono strisce, triangoli, quadrati di campi e di cieli in cui la luce e i colori molto saturi producono un effetto fortemente irrealistico.
Si prosegue con la serie dei mari (giustapposizioni orizzontali di cieli, strisce di luce e acqua) e poi con quella degli asfalti, sorprendente nel trasformare strisce di colore banali, tracciate sul grigio intenso dell’asfalto, in icone pop cariche di emozioni.
Segue la serie degli scatti realizzati negli Stati Uniti negli anni Ottanta, tra le prime foto in cui si vedono comparire anche esseri umani, che diventano però essi stessi macchie di colore bidimensionali dentro ambientazioni quasi stranianti, una specie di versione contemporanea dei quadri di Hopper.
Bellissima la serie dei paesaggi urbani, dove angoli di case, muri colorati, pezzi di graffiti, ombre, tetti e mattoni vanno a disegnare paesaggi astratti non molto distanti da quelli realizzati fotografando la natura. La capacità di Fontana di vedere al di là del visibile, le sue intuizioni nel trovare forme altre nella realtà che ci circonda e di portarle alla luce sono davvero sorprendenti e spiazzanti.
Le ultime serie di foto, quelle realizzate nella piscina e quelle sulle statue di un cimitero monumentale – pur affascinanti – escono un po’ dal registro proprio del fotografo e personalmente mi piacciono di meno.
Girare per le sale della mostra e ascoltare lo stesso Fontana parlare delle sue fotografie nel video che introduce la mostra (e che ho prontamente acquistato) mi ha fatto venire una gran voglia di andare in giro a fotografare e anche di avere un maestro come lui che mi racconti che cosa è la fotografia. Il fatto è che la sua sensibilità e il suo modo di concepire il rapporto con il mondo circostante per il tramite della macchina fotografica li ho sentiti molto vicini a me e alle mie modalità di percezione. Una sintonia di visione e di linguaggio fotografico che mi ha molto colpito e mi ha fatto venire una voglia pazzesca di fotografare.
Per l’intanto ho potuto giusto fare un paio di foto di Venezia al tramonto. Ma voglio tornare a cercare di più situazioni in cui fotografare. Del resto - come dice lui - la fotografia è tutta un puntamento, proprio come la vita.
Voto: 4/5
Venezia è in pieno trip carnevalesco e nei momenti in cui si incontra la fiumana di gente che attraversa i percorsi principali si fa decisamente fatica a camminare. Però è bello perdersi nei suoi vicoli, girare in tondo senza avere la più pallida idea di dove ci si trova, fare un giro pazzesco per raggiungere un posto che in linea d’aria sarebbe stato vicinissimo.
Insomma, dopo il bagno di folla (ma anche due bruschette, una birretta e due frittelle veneziane), arriviamo alla sede della mostra.
Non conoscevo Franco Fontana, anche se forse avevo già visto qualcuna delle sue straordinarie foto, che possono essere tranquillamente scambiate per quadri. La mostra inizia con una impressionante serie di paesaggi, scatti fatti in prevalenza in Puglia e Basilicata tra gli anni Settanta e Ottanta. Geometrie di colori che producono astrazioni alla Rothko, mentre invece sono strisce, triangoli, quadrati di campi e di cieli in cui la luce e i colori molto saturi producono un effetto fortemente irrealistico.
Si prosegue con la serie dei mari (giustapposizioni orizzontali di cieli, strisce di luce e acqua) e poi con quella degli asfalti, sorprendente nel trasformare strisce di colore banali, tracciate sul grigio intenso dell’asfalto, in icone pop cariche di emozioni.
Segue la serie degli scatti realizzati negli Stati Uniti negli anni Ottanta, tra le prime foto in cui si vedono comparire anche esseri umani, che diventano però essi stessi macchie di colore bidimensionali dentro ambientazioni quasi stranianti, una specie di versione contemporanea dei quadri di Hopper.
Bellissima la serie dei paesaggi urbani, dove angoli di case, muri colorati, pezzi di graffiti, ombre, tetti e mattoni vanno a disegnare paesaggi astratti non molto distanti da quelli realizzati fotografando la natura. La capacità di Fontana di vedere al di là del visibile, le sue intuizioni nel trovare forme altre nella realtà che ci circonda e di portarle alla luce sono davvero sorprendenti e spiazzanti.
Le ultime serie di foto, quelle realizzate nella piscina e quelle sulle statue di un cimitero monumentale – pur affascinanti – escono un po’ dal registro proprio del fotografo e personalmente mi piacciono di meno.
Girare per le sale della mostra e ascoltare lo stesso Fontana parlare delle sue fotografie nel video che introduce la mostra (e che ho prontamente acquistato) mi ha fatto venire una gran voglia di andare in giro a fotografare e anche di avere un maestro come lui che mi racconti che cosa è la fotografia. Il fatto è che la sua sensibilità e il suo modo di concepire il rapporto con il mondo circostante per il tramite della macchina fotografica li ho sentiti molto vicini a me e alle mie modalità di percezione. Una sintonia di visione e di linguaggio fotografico che mi ha molto colpito e mi ha fatto venire una voglia pazzesca di fotografare.
Per l’intanto ho potuto giusto fare un paio di foto di Venezia al tramonto. Ma voglio tornare a cercare di più situazioni in cui fotografare. Del resto - come dice lui - la fotografia è tutta un puntamento, proprio come la vita.
Voto: 4/5
lunedì 24 febbraio 2014
unastoria / Gipi
unastoria / Gipi. Bologna: Coconino Press, 2013.
Gipi - si sa - è uno tormentato, sempre in qualche modo in conflitto con il proprio sé interiore e alla ricerca di una composizione tra questo e il mondo circostante; uno che cerca risposte nel proprio passato, in quello della propria famiglia, in quello dell'umanità.
Le sue sono storie che ci mettono di fronte alle nostre umane fragilità, quelle che ci hanno reso ciò che siamo, nel bene e nel male, e con cui inevitabilmente dobbiamo fare i conti per continuare a vivere.
unastoria, il suo ultimo graphic novel, è una po' la sintesi di quella che possiamo chiamare la poetica di Gipi, una specie di bilancio doloroso e in parte speranzoso dei suoi primi cinquant'anni. Gli stessi del protagonista di questo racconto, Silvano Landi, che a cinquant'anni si ritrova in una clinica psichiatrica dopo aver visto il proprio sé andare in pezzi e con quello anche ciò che restava della propria vita. Un uomo ossessionato da due immagini: un enorme albero solitario rinsecchito e una stazione di servizio nel nulla, illuminata da luci artificiali. Sono le immagini che collegano la sua storia a quella di un suo antenato, Mauro Landi, di cui Silvano ha trovato le lettere che questi scriveva dal fronte durante la prima guerra mondiale a sua moglie, che l'aspettava a casa con il figlioletto.
Si tratta probabilmente dell'opera più visionaria e poetica del fumettista pisano, come è testimoniato innanzitutto dal disegno che la caratterizza. Silvano tracciato con segni di matita insistiti, come i solchi che segnano il suo volto e la sua anima, il mondo circostante nella clinica fatto di tratti confusi e quasi pasticciati, come l'immagine che proiettano sulla sua interiorità; i grandi acquerelli che rappresentano una natura bellissima e spaventosa al contempo, buia prevalentemente, con pochi sprazzi di luce quasi accecante; le città invece sature di luce e di colori, che appaiono però finti, in qualche modo innaturali; il fronte, grigio e triste, in cui l'albero che ancora si erge nel vuoto circostante testimonia di una natura che l'uomo, con le sue mortali invenzioni, ha spazzato via.
Una storia sul tempo che lavora incessantemente, che non ha fretta di compiersi e che tutto compone; ma anche una storia sull'uomo che il tempo violenta con la sua capacità e la sua costante spinta a proiettarsi nel futuro e nello stesso tempo a conservare nella memoria il proprio passato.
Grandezza e condanna di un'umanità che proprio per questo porta su di sé i segni del passare del tempo e che - nella narrazione del passato e nella proiezione sul futuro - spesso smarrisce il proprio presente.
Voto: 3,5/5
Gipi - si sa - è uno tormentato, sempre in qualche modo in conflitto con il proprio sé interiore e alla ricerca di una composizione tra questo e il mondo circostante; uno che cerca risposte nel proprio passato, in quello della propria famiglia, in quello dell'umanità.
Le sue sono storie che ci mettono di fronte alle nostre umane fragilità, quelle che ci hanno reso ciò che siamo, nel bene e nel male, e con cui inevitabilmente dobbiamo fare i conti per continuare a vivere.
unastoria, il suo ultimo graphic novel, è una po' la sintesi di quella che possiamo chiamare la poetica di Gipi, una specie di bilancio doloroso e in parte speranzoso dei suoi primi cinquant'anni. Gli stessi del protagonista di questo racconto, Silvano Landi, che a cinquant'anni si ritrova in una clinica psichiatrica dopo aver visto il proprio sé andare in pezzi e con quello anche ciò che restava della propria vita. Un uomo ossessionato da due immagini: un enorme albero solitario rinsecchito e una stazione di servizio nel nulla, illuminata da luci artificiali. Sono le immagini che collegano la sua storia a quella di un suo antenato, Mauro Landi, di cui Silvano ha trovato le lettere che questi scriveva dal fronte durante la prima guerra mondiale a sua moglie, che l'aspettava a casa con il figlioletto.
Si tratta probabilmente dell'opera più visionaria e poetica del fumettista pisano, come è testimoniato innanzitutto dal disegno che la caratterizza. Silvano tracciato con segni di matita insistiti, come i solchi che segnano il suo volto e la sua anima, il mondo circostante nella clinica fatto di tratti confusi e quasi pasticciati, come l'immagine che proiettano sulla sua interiorità; i grandi acquerelli che rappresentano una natura bellissima e spaventosa al contempo, buia prevalentemente, con pochi sprazzi di luce quasi accecante; le città invece sature di luce e di colori, che appaiono però finti, in qualche modo innaturali; il fronte, grigio e triste, in cui l'albero che ancora si erge nel vuoto circostante testimonia di una natura che l'uomo, con le sue mortali invenzioni, ha spazzato via.
Una storia sul tempo che lavora incessantemente, che non ha fretta di compiersi e che tutto compone; ma anche una storia sull'uomo che il tempo violenta con la sua capacità e la sua costante spinta a proiettarsi nel futuro e nello stesso tempo a conservare nella memoria il proprio passato.
Grandezza e condanna di un'umanità che proprio per questo porta su di sé i segni del passare del tempo e che - nella narrazione del passato e nella proiezione sul futuro - spesso smarrisce il proprio presente.
Voto: 3,5/5
martedì 18 febbraio 2014
Tango libre
Il film di Frédèric Fonteyne (di cui avevo visto a suo tempo l'interessante Una relazione privata) non manca certamente del dono dell'originalità, innanzitutto per la mescolanza di generi che rende non semplice la sua classificazione, decisamente a metà strada tra dramma e commedia. In secondo luogo per la scelta di mettere insieme due mondi apparentemente molto lontani, la prigione e il tango.
Ne viene fuori un film esteticamente molto bello: gli sguardi del regista sugli interni delle case (con le loro improbabili carte da parati e l'uso sapiente di luci naturali e artificiali) sono commoventi, così come le scene collettive di tango nel carcere sono potenti ed emozionanti al contempo.
Durante il film si riesce a passare senza soluzione di continuità dal pathos al sorriso, anche grazie alla riuscita interazione tra i protagonisti. Il suo difetto sta invece nell'insufficiente approfondimento psicologico dei caratteri principali, tratteggiati sommariamente e in maniera del tutto funzionale allo sviluppo della storia, ma senza che sia realmente possibile comprendere origini e motivazioni dei loro comportamenti. La stessa figura femminile che è il motore di tutto l'intreccio appare monodimensionale e si esce dal cinema insoddisfatti per il fatto di non essere riusciti a penetrare il suo mondo interiore. A questo si affianca una certa qual sovrabbondanza di temi e questioni che probabilmente avrebbero richiesto ben altro approfondimento: la solitudine e la rigidità della guardia giurata, la fragilità psicologica e le forme di ribellione del figlio quindicenne, l'intrecciarsi di amicizia e amore in un modo per certi versi incomprensibile, ma profondamente umano.
Insomma, un film che mette molta, forse troppa carne al fuoco, senza riuscire a spiegare la complessità dei sentimenti e delle relazioni, e che forse proprio per questo non può che virare verso quel sorriso liberatorio e autoassolvente su cui si aprono i titoli di coda.
Voto: 3/5
Tutta la storia ruota intorno alla figura di Alice (Anne Paulicevich, che è anche la sceneggiatrice del film), una donna che non si può definire bella in senso stretto, ma che è certamente dotata di una straordinaria sensualità, unica modalità di comunicazione con la quale è in grado di relazionarsi con il mondo circostante, in particolare con gli uomini della sua vita: suo marito Fernand (Sergi López), l'amante Dominic (Jan Hammenecker), il figlio Antonio (Zacharie Chasseriaud) e la guardia giurata JC (François Damiens). Questo intreccio di sentimenti, nonché la profonda diversità dei caratteri di questi personaggi trovano la propria espressione nella forza e nella sensualità del tango, che è fatto appunto di seduzione, di conflitto e di dominio e che - una volta abbracciato nella sua natura più profonda - incarna l'idea stessa della libertà.
Ne viene fuori un film esteticamente molto bello: gli sguardi del regista sugli interni delle case (con le loro improbabili carte da parati e l'uso sapiente di luci naturali e artificiali) sono commoventi, così come le scene collettive di tango nel carcere sono potenti ed emozionanti al contempo.
Durante il film si riesce a passare senza soluzione di continuità dal pathos al sorriso, anche grazie alla riuscita interazione tra i protagonisti. Il suo difetto sta invece nell'insufficiente approfondimento psicologico dei caratteri principali, tratteggiati sommariamente e in maniera del tutto funzionale allo sviluppo della storia, ma senza che sia realmente possibile comprendere origini e motivazioni dei loro comportamenti. La stessa figura femminile che è il motore di tutto l'intreccio appare monodimensionale e si esce dal cinema insoddisfatti per il fatto di non essere riusciti a penetrare il suo mondo interiore. A questo si affianca una certa qual sovrabbondanza di temi e questioni che probabilmente avrebbero richiesto ben altro approfondimento: la solitudine e la rigidità della guardia giurata, la fragilità psicologica e le forme di ribellione del figlio quindicenne, l'intrecciarsi di amicizia e amore in un modo per certi versi incomprensibile, ma profondamente umano.
Insomma, un film che mette molta, forse troppa carne al fuoco, senza riuscire a spiegare la complessità dei sentimenti e delle relazioni, e che forse proprio per questo non può che virare verso quel sorriso liberatorio e autoassolvente su cui si aprono i titoli di coda.
Voto: 3/5
venerdì 14 febbraio 2014
Herb Ritts. In piena luce. Mostra. Auditorium Parco della Musica, 11 dicembre 2013- 30 marzo 2014
Per la generazione degli attuali quarantenni (o giù di lì) la mostra di Herb Ritts, In piena luce, attualmente in corso presso il nuovo spazio espositivo dell’Auditorium Parco della Musica, è assolutamente un must, perché in questa mostra troverete le origini di quella costruzione del nostro immaginario di bellezza, di eleganza e di trasgressione che si è formato proprio tra gli anni ’80 e l'inizio dei ’90.
Ritts è l’autore di alcune delle fotografie di modelle e di personaggi celebri (attori e cantanti) più conosciute e più popolari per chi quegli anni li ha vissuti durante la propria adolescenza o subito dopo. La foto di profilo di Madonna, quella di Jack Nicholson nei panni di Joker, quella delle cinque modelle più famose di quel periodo abbracciate, quella di Richard Gere versione benzinaio credo che abbiano fatto mostra di sé sulle pareti di molte stanze da adolescenti degli attuali quarantenni.
La cosa certamente più bella di questa mostra è scoprire che una certa rappresentazione della bellezza, un modo di costruire immagini iconiche che noi attualmente riconosciamo come normale nella moda, nella pubblicità, nel mondo dello spettacolo non sono affatto sempre esistiti. Questa idea di bellezza è stata invece elaborata, costruita e in qualche modo concettualizzata negli anni Ottanta ed uno dei suoi principali artefici è stato proprio Herb Ritts, la cui eredità è da questo punto di vista assolutamente straordinaria.
Poi va detto che guardare le foto di Ritts tutte insieme permette di capire che il lavoro del fotografo va ben al di là di un prodotto patinato e stilisticamente perfetto, bensì si caratterizza per una ricerca sull’immagine, sulla luce naturale, sui contesti e sui corpi che trasmette qualcosa di più articolato rispetto alla semplice idea di bellezza e di fascino.
In questo senso trovo particolarmente significativo quanto affermava Richard Gere in merito al lavoro del fotografo: “Puro. Istintivo. Le sue immagini erano calde e belle perché quello era ciò che lui vedeva, quello che lui era. Ho sempre percepito una certa tristezza nella sue foto, subito sotto la bellezza in superficie, come se i suoi soggetti sapessero che era effimera e forse senza significato”.
Insomma, la mostra di Ritts dà la possibilità di passeggiare in un’epoca – forse l’ultima – in cui le celebrità (modelli/e e attori/trici) hanno potuto trasfondere la propria anima dentro l’immagine iconica che di loro è stata portata al grande pubblico, e proprio per questo hanno potuto in parte combattere il carattere effimero della bellezza. E questo grazie a Ritts.
Piccola postilla: belli anche i video (uno sulla scelta dei provini a contatto, l’altro un montaggio di video realizzati dal fotografo) che la mostra permette di visionare.
Voto: 3,5/5
Ritts è l’autore di alcune delle fotografie di modelle e di personaggi celebri (attori e cantanti) più conosciute e più popolari per chi quegli anni li ha vissuti durante la propria adolescenza o subito dopo. La foto di profilo di Madonna, quella di Jack Nicholson nei panni di Joker, quella delle cinque modelle più famose di quel periodo abbracciate, quella di Richard Gere versione benzinaio credo che abbiano fatto mostra di sé sulle pareti di molte stanze da adolescenti degli attuali quarantenni.
La cosa certamente più bella di questa mostra è scoprire che una certa rappresentazione della bellezza, un modo di costruire immagini iconiche che noi attualmente riconosciamo come normale nella moda, nella pubblicità, nel mondo dello spettacolo non sono affatto sempre esistiti. Questa idea di bellezza è stata invece elaborata, costruita e in qualche modo concettualizzata negli anni Ottanta ed uno dei suoi principali artefici è stato proprio Herb Ritts, la cui eredità è da questo punto di vista assolutamente straordinaria.
Poi va detto che guardare le foto di Ritts tutte insieme permette di capire che il lavoro del fotografo va ben al di là di un prodotto patinato e stilisticamente perfetto, bensì si caratterizza per una ricerca sull’immagine, sulla luce naturale, sui contesti e sui corpi che trasmette qualcosa di più articolato rispetto alla semplice idea di bellezza e di fascino.
In questo senso trovo particolarmente significativo quanto affermava Richard Gere in merito al lavoro del fotografo: “Puro. Istintivo. Le sue immagini erano calde e belle perché quello era ciò che lui vedeva, quello che lui era. Ho sempre percepito una certa tristezza nella sue foto, subito sotto la bellezza in superficie, come se i suoi soggetti sapessero che era effimera e forse senza significato”.
Insomma, la mostra di Ritts dà la possibilità di passeggiare in un’epoca – forse l’ultima – in cui le celebrità (modelli/e e attori/trici) hanno potuto trasfondere la propria anima dentro l’immagine iconica che di loro è stata portata al grande pubblico, e proprio per questo hanno potuto in parte combattere il carattere effimero della bellezza. E questo grazie a Ritts.
Piccola postilla: belli anche i video (uno sulla scelta dei provini a contatto, l’altro un montaggio di video realizzati dal fotografo) che la mostra permette di visionare.
Voto: 3,5/5
mercoledì 12 febbraio 2014
Dallas Buyers Club
Dallas Buyers Club è uno di quei film che hanno tutte le carte in regola per vincere le competizioni cinemtografiche. Innanzitutto, attori che sottopongono il loro corpo a una trasformazione profonda per incarnare lo spirito dei loro personaggi (in questo caso gli straordinari Matthew McConaughey e Jared Leto), una storia vera che richiama un periodo emotivamente molto difficile (gli anni ’80 della diffusione dell’AIDS), una sceneggiatura - peraltro tratta da una storia vera - in cui il riscatto personale e i sentimenti sono assolutamente centrali.
È dunque impossibile non restarne catturati.
Il film è la storia di Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che, dopo aver scoperto di essere positivo all’HIV, nel tentativo di sopravvivere il più possibile alla malattia entra in contatto con un medico radiato dall’ordine che somministra cure alternative a quelle che lo stato americano, attraverso la FDA (Food and Drug administration), sta adottando e decide – prima per ottenerne guadagni personali poi perché sempre più convinto dell’opportunità di questa battaglia – di importarli illegalmente e di somministrarli agli altri malati. Il personaggio di Ron è quello di un mascalzone, un imbroglione, un gretto omofobo, un alcolista e un tossico, uno che per i soldi farebbe qualunque cosa, ma che attraverso la propria malattia e il contatto con il mondo di coloro che sono malati di AIDS ingaggia una battaglia e lo fa con tutte le sue residue forze.
Di fronte a una storia così non si può rimanere indifferenti. Si parteggia per il mascalzone, si fa il tifo per lui, ci si affeziona e ci si commuove.
In questo senso, Dallas Buyers Club è uno di quei film che non possono non piacermi. Vero però è che appena usciti dal cinema, a mente fredda, la sensazione di aver assistito a un drammone all’americana, in cui forse ci sono troppe semplificazioni e poco spirito critico, di aver fatto la conoscenza con l’ennesimo antieroe americano, il mascalzone dal cuore d’oro che cambia le sorti dell’umanità è forte. E non si può fare a meno di prenderne in parte le distanze. Il che nulla toglie alla qualità del film e al fatto che valga la pena andare a vederlo. Si tratta solo di quel po' di snobismo che mi fa storcere il naso di fronte al fatto che la cinematografia americana anche quando è al suo meglio non riesce a non strizzare l'occhio allo spettatore.
Resta il fatto che Dallas Buyers Club è un ottimo film, con una solidissima sceneggiatura, grandi prove attoriali e una pulizia registica lodevole.
Voto: 3,5/5
È dunque impossibile non restarne catturati.
Il film è la storia di Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che, dopo aver scoperto di essere positivo all’HIV, nel tentativo di sopravvivere il più possibile alla malattia entra in contatto con un medico radiato dall’ordine che somministra cure alternative a quelle che lo stato americano, attraverso la FDA (Food and Drug administration), sta adottando e decide – prima per ottenerne guadagni personali poi perché sempre più convinto dell’opportunità di questa battaglia – di importarli illegalmente e di somministrarli agli altri malati. Il personaggio di Ron è quello di un mascalzone, un imbroglione, un gretto omofobo, un alcolista e un tossico, uno che per i soldi farebbe qualunque cosa, ma che attraverso la propria malattia e il contatto con il mondo di coloro che sono malati di AIDS ingaggia una battaglia e lo fa con tutte le sue residue forze.
Di fronte a una storia così non si può rimanere indifferenti. Si parteggia per il mascalzone, si fa il tifo per lui, ci si affeziona e ci si commuove.
In questo senso, Dallas Buyers Club è uno di quei film che non possono non piacermi. Vero però è che appena usciti dal cinema, a mente fredda, la sensazione di aver assistito a un drammone all’americana, in cui forse ci sono troppe semplificazioni e poco spirito critico, di aver fatto la conoscenza con l’ennesimo antieroe americano, il mascalzone dal cuore d’oro che cambia le sorti dell’umanità è forte. E non si può fare a meno di prenderne in parte le distanze. Il che nulla toglie alla qualità del film e al fatto che valga la pena andare a vederlo. Si tratta solo di quel po' di snobismo che mi fa storcere il naso di fronte al fatto che la cinematografia americana anche quando è al suo meglio non riesce a non strizzare l'occhio allo spettatore.
Resta il fatto che Dallas Buyers Club è un ottimo film, con una solidissima sceneggiatura, grandi prove attoriali e una pulizia registica lodevole.
Voto: 3,5/5
lunedì 10 febbraio 2014
A proposito di Davis
All’ennesimo film dei fratelli Coen osannato dalla critica e che invece mi lascia completamente indifferente (finora pochissimi per me hanno fatto eccezione), ne devo davvero concludere che non mi posso definire un’intellettuale.
Eh sì, perché ho nettamente la sensazione che i Coen piacciano a chi ha un approccio molto cerebrale e colto al cinema, mentre invece io non riesco a fare a meno di usare la pancia, come del resto mi accade anche in moltissime altre cose della vita.
E dunque di fronte al nuovo film che racconta - con una struttura narrativa circolare - un periodo della vita di Llweyn Davis, un cantante folk che tenta inutilmente di vivere grazie alla sua musica e di farsi apprezzare per questo, ma che invece si trova a dover combattere con le numerose sfortune che gli capitano o si procura, non ho provato quasi alcuno slancio emotivo. Anzi a tratti ho trovato il film noioso nel racconto un po’ insistito e ridondante di questo pur tenero perdente.
Certo, non posso dire di non aver apprezzato le scelte registiche, questi colori completamente desaturati che lasciano il ricordo di un film in bianco e nero, la musica a tratti anche molto bella nell’interpretazione diretta degli attori. Non posso certo nascondere la bravura dell’interprete Oscar Isaac, né quella dei comprimari come Carey Mulligan, John Goodman e Justin Timberlake. Non posso neppure passare sotto silenzio che il carattere un po’ grottesco e sopra le righe della sceneggiatura ha momenti cinicamente esilaranti.
Resta però il fatto che nella mia personale visione del cinema tutto ciò non è sufficiente a rendere un film memorabile, né tanto meno a farne un capolavoro. Anzi, mi sento di dire che il film mi è scivolato addosso senza lasciarmi quasi nulla attaccato.
E poi posso anche essere d’accordo – come leggo nella maggior parte delle recensioni – che i Coen propongono una ricostruzione poetica e soggettiva dell’atmosfera del Village negli anni che precedettero l’esplosione della musica folk con il successo mondiale di Bob Dylan, ma evidentemente non ho una conoscenza sufficiente di quel momento né dal punto di vista storico-sociale né dal punto di vista musicale per poter apprezzare abbastanza questo aspetto. Così come è certo che i Coen abbiano infarcito il film di omaggi e citazioni, ma ancora una volta mi sa di operazione intellettualistica più che istintivamente sincera.
Insomma, forse dovevo dirvelo prima. Non leggete la mia recensione se cercate una conferma della vostra adorazione per i Coen e se pensate che i due fratelli siano dei geni del cinema.
Voto: 3
Eh sì, perché ho nettamente la sensazione che i Coen piacciano a chi ha un approccio molto cerebrale e colto al cinema, mentre invece io non riesco a fare a meno di usare la pancia, come del resto mi accade anche in moltissime altre cose della vita.
E dunque di fronte al nuovo film che racconta - con una struttura narrativa circolare - un periodo della vita di Llweyn Davis, un cantante folk che tenta inutilmente di vivere grazie alla sua musica e di farsi apprezzare per questo, ma che invece si trova a dover combattere con le numerose sfortune che gli capitano o si procura, non ho provato quasi alcuno slancio emotivo. Anzi a tratti ho trovato il film noioso nel racconto un po’ insistito e ridondante di questo pur tenero perdente.
Certo, non posso dire di non aver apprezzato le scelte registiche, questi colori completamente desaturati che lasciano il ricordo di un film in bianco e nero, la musica a tratti anche molto bella nell’interpretazione diretta degli attori. Non posso certo nascondere la bravura dell’interprete Oscar Isaac, né quella dei comprimari come Carey Mulligan, John Goodman e Justin Timberlake. Non posso neppure passare sotto silenzio che il carattere un po’ grottesco e sopra le righe della sceneggiatura ha momenti cinicamente esilaranti.
Resta però il fatto che nella mia personale visione del cinema tutto ciò non è sufficiente a rendere un film memorabile, né tanto meno a farne un capolavoro. Anzi, mi sento di dire che il film mi è scivolato addosso senza lasciarmi quasi nulla attaccato.
E poi posso anche essere d’accordo – come leggo nella maggior parte delle recensioni – che i Coen propongono una ricostruzione poetica e soggettiva dell’atmosfera del Village negli anni che precedettero l’esplosione della musica folk con il successo mondiale di Bob Dylan, ma evidentemente non ho una conoscenza sufficiente di quel momento né dal punto di vista storico-sociale né dal punto di vista musicale per poter apprezzare abbastanza questo aspetto. Così come è certo che i Coen abbiano infarcito il film di omaggi e citazioni, ma ancora una volta mi sa di operazione intellettualistica più che istintivamente sincera.
Insomma, forse dovevo dirvelo prima. Non leggete la mia recensione se cercate una conferma della vostra adorazione per i Coen e se pensate che i due fratelli siano dei geni del cinema.
Voto: 3
mercoledì 5 febbraio 2014
Augusto. Mostra. Scuderie del Quirinale, Roma, 18 ottobre 2013 - 9 febbraio 2014
Quasi in zona Cesarini io e C. riusciamo finalmente ad andare a vedere la mostra su Augusto, in corso fino al 9 febbraio alle Scuderie del Quirinale. Diciamo che vista la recente passione per l’antichità romana non potevamo perderla!
Ed effettivamente la mostra – sebbene resa per noi un po’ più faticosa dalle due birrette bevute dall’Antò (insieme alla farinata, alla focaccia col formaggio e al pane sciapo con la coppa) – merita. La figura di Augusto viene ricostruita in tutte le sue sfaccettature attraverso l’esposizione di numerosi pezzi scultorei (ritratti ed elementi decorativi), nonché molteplici oggetti della vita quotidiana e oggetti preziosi, come cammei, monete e similari.
La prima parte della mostra è dedicata al racconto della famiglia di Augusto: le mogli, la figlia, i nipoti, i fratelli e sorelle con le relative famiglie, e tutti i tentativi di designare un successore che – spesso a causa della morte o della caduta in disgrazia dello stesso – costringeva l'imperatore a una nuova scelta. La famiglia di Augusto ci viene mostrata attraverso un'impressionante serie di ritratti a mezzobusto, nonché alcune statue a figura intera.
A seguire ci viene raccontato il processo di costruzione dell’immagine e dell’ideologia augustea, che molto deve all’esempio del mondo greco e che risente fortemente del modello ellenizzante nelle scelte scultoree e non solo.
Il secondo piano della mostra si focalizza sulla piena attuazione dell’ideologia augustea, quella temperie socio-politica e culturale nella quale fu immaginata la realizzazione dell’Ara Pacis. In pratica, un’epoca che Augusto voleva presentare ai romani e alle altre popolazioni dell’impero come un’età di prosperità e di pace come mai Roma aveva vissuto fino a quel momento.
Infine, l’ultima parte della mostra è dedicata al processo di divizzazione di Augusto dopo la morte, iniziato già con i riti del suo funerale.
Insomma, una panoramica ricca e affascinante, che – come tutte le mostre di questo genere – richiede anche un certo sforzo di immaginazione per dare contorni riconoscibili a un mondo molto lontano dal nostro e le cui testimonianze, per quanto numerose, richiedono l’applicazione di vari – e non sempre semplici – livelli interpretativi.
Una mostra che vale sicuramente la pena di essere vista.
Unico appunto: alcune monete e cammei contenuti nelle teche di vetro, pur provvisti di lente di ingrandimento, sono posizionati in modo tale rispetto alle luci da non essere visibili nemmeno con la lente.
Voto: 3,5/5
Ed effettivamente la mostra – sebbene resa per noi un po’ più faticosa dalle due birrette bevute dall’Antò (insieme alla farinata, alla focaccia col formaggio e al pane sciapo con la coppa) – merita. La figura di Augusto viene ricostruita in tutte le sue sfaccettature attraverso l’esposizione di numerosi pezzi scultorei (ritratti ed elementi decorativi), nonché molteplici oggetti della vita quotidiana e oggetti preziosi, come cammei, monete e similari.
La prima parte della mostra è dedicata al racconto della famiglia di Augusto: le mogli, la figlia, i nipoti, i fratelli e sorelle con le relative famiglie, e tutti i tentativi di designare un successore che – spesso a causa della morte o della caduta in disgrazia dello stesso – costringeva l'imperatore a una nuova scelta. La famiglia di Augusto ci viene mostrata attraverso un'impressionante serie di ritratti a mezzobusto, nonché alcune statue a figura intera.
A seguire ci viene raccontato il processo di costruzione dell’immagine e dell’ideologia augustea, che molto deve all’esempio del mondo greco e che risente fortemente del modello ellenizzante nelle scelte scultoree e non solo.
Il secondo piano della mostra si focalizza sulla piena attuazione dell’ideologia augustea, quella temperie socio-politica e culturale nella quale fu immaginata la realizzazione dell’Ara Pacis. In pratica, un’epoca che Augusto voleva presentare ai romani e alle altre popolazioni dell’impero come un’età di prosperità e di pace come mai Roma aveva vissuto fino a quel momento.
Infine, l’ultima parte della mostra è dedicata al processo di divizzazione di Augusto dopo la morte, iniziato già con i riti del suo funerale.
Insomma, una panoramica ricca e affascinante, che – come tutte le mostre di questo genere – richiede anche un certo sforzo di immaginazione per dare contorni riconoscibili a un mondo molto lontano dal nostro e le cui testimonianze, per quanto numerose, richiedono l’applicazione di vari – e non sempre semplici – livelli interpretativi.
Una mostra che vale sicuramente la pena di essere vista.
Unico appunto: alcune monete e cammei contenuti nelle teche di vetro, pur provvisti di lente di ingrandimento, sono posizionati in modo tale rispetto alle luci da non essere visibili nemmeno con la lente.
Voto: 3,5/5
lunedì 3 febbraio 2014
American Hustle
Chi è rimasto folgorato da American Hustle e lo considera uno dei migliori film americani degli ultimi anni forse farà meglio a non leggere la mia recensione, perché molto probabilmente non saremo d’accordo.
Ora, non è che io possa dire che si tratti di un brutto film, né posso dire che sia mal recitato (anche grazie a un ottimo cast di attori tra cui spiccano Christian Bale e Amy Adams), né che visivamente non sia godibile (la ricostruzione degli anni ’70 è molto bella e interessante), né che non abbia una eccellente colonna sonora.
Ma ho la sensazione che il film si riduca a questo. Ossia che si tratti di una specie di divertissement, un giocattolone per far divertire regista (David O. Russell), attori e spettatori, senza però avere grosse pretese di senso.
La storia infatti – pur abbastanza articolata – non mi pare si possa definire particolarmente originale, né memorabile. E il modo in cui viene rappresentata sullo schermo e recitata è sempre fortemente sopra le righe, quasi da risultare costantemente una caricatura di se stessa.
Si potrebbe dire che la sceneggiatura di American Hustle sia quasi un pretesto per fare il verso a certi film degli anni Settanta e nello stesso tempo per offrirne un omaggio affettuoso e commosso, che passa attraverso scelte stilistiche molto interessanti.
Ciò detto, io personalmente ho passato due ore e mezzo di film (obiettivamente un po’ lunghetto) a chiedermi dove sarebbe andato a parare, anzi a dirmi che di lì a poco qualcosa sarebbe intervenuto a ribaltare completamente l’interpretazione degli eventi e a lasciarmi a bocca aperta. Ma non è successo niente di tutto ciò.
Dunque il film va preso per quello che è. Un’operazione dal forte sapore vintage (che va tanto di moda), molto ben riuscita sul piano formale, in parte divertente, ma niente di più.
E – come sempre dico in questi casi – non me ne vogliano i fans (che sono convinta saranno tantissimi).
Voto: 2,5/5
Ora, non è che io possa dire che si tratti di un brutto film, né posso dire che sia mal recitato (anche grazie a un ottimo cast di attori tra cui spiccano Christian Bale e Amy Adams), né che visivamente non sia godibile (la ricostruzione degli anni ’70 è molto bella e interessante), né che non abbia una eccellente colonna sonora.
Ma ho la sensazione che il film si riduca a questo. Ossia che si tratti di una specie di divertissement, un giocattolone per far divertire regista (David O. Russell), attori e spettatori, senza però avere grosse pretese di senso.
La storia infatti – pur abbastanza articolata – non mi pare si possa definire particolarmente originale, né memorabile. E il modo in cui viene rappresentata sullo schermo e recitata è sempre fortemente sopra le righe, quasi da risultare costantemente una caricatura di se stessa.
Si potrebbe dire che la sceneggiatura di American Hustle sia quasi un pretesto per fare il verso a certi film degli anni Settanta e nello stesso tempo per offrirne un omaggio affettuoso e commosso, che passa attraverso scelte stilistiche molto interessanti.
Ciò detto, io personalmente ho passato due ore e mezzo di film (obiettivamente un po’ lunghetto) a chiedermi dove sarebbe andato a parare, anzi a dirmi che di lì a poco qualcosa sarebbe intervenuto a ribaltare completamente l’interpretazione degli eventi e a lasciarmi a bocca aperta. Ma non è successo niente di tutto ciò.
Dunque il film va preso per quello che è. Un’operazione dal forte sapore vintage (che va tanto di moda), molto ben riuscita sul piano formale, in parte divertente, ma niente di più.
E – come sempre dico in questi casi – non me ne vogliano i fans (che sono convinta saranno tantissimi).
Voto: 2,5/5