Michael Haneke ci ha abituati ad uno stile cinematografico che non ha paura di rappresentare situazioni, sentimenti, tratti di umanità che tendiamo a rimuovere dalla nostra vista e dei nostri pensieri. La nostra percezione del cinema come spazio di evasione o esperienza catartica tendenzialmente ci fa rifiutare l'approccio - in qualche modo estremo - di Haneke.
Ed effettivamente bisogna essere preparati a vedere un suo film, sapere cosa ci aspetta, dunque scegliere o meno di vederlo.
In Amour il tema portato sullo schermo da Haneke è la vecchiaia, non quella edulcorata che di solito i mezzi di comunicazione di massa ci propongono, fatta di vecchietti arzilli che giocano con i nipoti e che vanno a ballare, ma quella purtroppo molto reale del decadimento fisico, della malattia, della perdita della dignità, della solitudine, della morte.
Nel ritmo volutamente lentissimo che rispecchia i movimenti di Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (Jean-Louis Trintignant), negli ambienti volutamente rappresentati in maniera angusta così come sono percepiti dai protagonisti, nella totale assenza di un mondo esterno - dal quale i due anziani si ritirano, nulla ci viene risparmiato della sofferenza fisica e psicologica della vecchiaia.
Paradossalmente, il fatto che questo decadimento riguardi una coppia che si ama ancora molto, dopo aver trascorso una vita insieme e aver condiviso gioie e passioni, accentua - anziché ridurre - la sofferenza. Perché il coinvolgimento emotivo rende intollerabile per chi è malato l'idea di diventare un peso per l'altro e per chi sta meglio assistere impotente alla sofferenza e perdere a poco a poco la persona che si ama.
In questo groviglio inestricabile non c'è via d'uscita: nulla può il mondo esterno. Non la figlia Eva (Isabelle Huppert) che non riesce ad accettare razionalmente la malattia della madre e la chiusura della coppia nel vivere il proprio dolore, non le persone che per affetto o per professione danno una mano alla coppia per affrontare le questioni pratiche, ma gli sono estranei nei sentimenti.
Come leggere dunque l'abbraccio mortale con cui si chiude questa storia? Come una resa, un atto d'amore, un gesto egoistico? Probabilmente non esiste comprensione al di fuori dei confini di quella coppia, di quel letto, di quella casa.
A me il film ha profondamente emozionato. Il groppo allo stomaco mi è spesso salito su nel tentativo di sciogliersi in lacrima, in un misto di rabbia, tenerezza, impotenza, ineluttabilità.
Dal giorno dopo torneremo a rimuovere il pensiero della vecchiaia e di quello che potrebbe attenderci (sperando che il destino sia clemente), in una lotta quotidiana con i nostri pensieri che il trascorrere del tempo rende sempre più impari.
Voto: 4/5
mercoledì 28 novembre 2012
sabato 24 novembre 2012
La sposa promessa
Con la mia amica G. commentavamo che guardare questo film produce la stessa sensazione che guardare dentro un acquario. Si vedono dei pesci muoversi, entrare in relazione o ignorarsi, affannarsi in una direzione o nell’altra, ma è praticamente impossibile capirne le motivazioni.
Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.
La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.
Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.
Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.
È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.
Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.
Voto: 2/5
Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.
La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.
Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.
Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.
È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.
Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.
Voto: 2/5
mercoledì 21 novembre 2012
Nel nome di Martha Argerich
Fino a un mese fa circa, data la mia già denunciata ignoranza in materia di musica classica, non sapevo neppure chi fosse Martha Argerich. Poi, su suggerimento esterno, compro i biglietti per il concerto al Santa Cecilia in cui la Argerich suona Schumann.
E qui cominciano i miei ascolti che culminano nel weekend in cui, il giorno prima di andare ad ascoltare il concerto, vado a vedere al Festival internazionale del film di Roma il film-documentario Bloody daughter che Stephanie Argerich ha realizzato per raccontare dei suoi genitori, entrambi pianisti, in particolare di sua madre Martha.
E qui cominciano i miei ascolti che culminano nel weekend in cui, il giorno prima di andare ad ascoltare il concerto, vado a vedere al Festival internazionale del film di Roma il film-documentario Bloody daughter che Stephanie Argerich ha realizzato per raccontare dei suoi genitori, entrambi pianisti, in particolare di sua madre Martha.
Bloody daughter non è un documentario di grandissime pretese artistiche, né concettuali, però è perfetto nel mettere in contatto con la personalità complessa di Martha Argerich e per guardare a questa grande pianista con l’occhio privato e affettuoso di sua figlia. Ne viene fuori il ritratto di una donna che ha dedicato la sua vita al pianoforte e alla musica, i cui amori più grandi sono certamente stati Beethoven e Schumann, ma la cui vita è stata anche attraversata ed è abitata da molte persone importanti: una madre dotata di un carattere fortissimo e soverchiante, i tre uomini dai quali ha avuto le sue tre figlie, appunto le tre figlie che hanno segnato periodi importanti e spesso difficili della sua vita, i nipotini, il suo manager che è una specie di amico fraterno, i fan cui Martha ha sempre dedicato molto tempo.
Al centro della vita di Martha c’è però sempre stato il palcoscenico, cui la lega un rapporto di amore e di odio: luogo della vita più vera per una pianista che solo nell’esecuzione della musica, nella performance musicale, realizza se stessa, ma anche luogo simbolico della paura più grande di tutte, quella di non essere all’altezza. E ovviamente il pianoforte che sembra per la Argerich l'unica vera maniera di esprimersi, tanto che di fronte alle domande della figlia spesso non riesce a completare le frasi e ne conclude che le parole non bastano, che è difficile spiegare le cose verbalmente.
È sorprendente scoprire che una musicista di questo livello continui a sentirsi annichilita ogni volta che sta per salire sul palco, mentre quando ne discende sembra aver succhiato la linfa direttamente dell’albero della vita.
È sorprendente scoprire che una musicista di questo livello continui a sentirsi annichilita ogni volta che sta per salire sul palco, mentre quando ne discende sembra aver succhiato la linfa direttamente dell’albero della vita.
Così, se è vero che la giovane e timida ragazza dai capelli corvini ha lasciato il posto a una signora dalla folta chioma grigia, lo stesso miracolo sembra accadere il giorno dopo la visione del film, quando, nell’ambito del Schumann Fest, dopo il Nachtlied op. 108 eseguito dal coro e dall’orchestra diretta del maestro Antonio Pappano, Martha Argerich si siede al pianoforte dialogando con l’orchestra nell’op. 54 (concerto per pianoforte e orchestra in La minore).
La più che settantenne Argerich non solo è più volte richiamata sul palco dal pubblico, ma alla fine concede un piccolo bis per la gioia di tutti i presenti.
Segue la sinfonia n. 2 che chiude in bellezza questa serata dedicata a Schumann.
Ne esco contenta, appagata. E, il giorno dopo, la mia personale biblioteca di musica classica si arricchisce di altri 4-5 CD :-)
La più che settantenne Argerich non solo è più volte richiamata sul palco dal pubblico, ma alla fine concede un piccolo bis per la gioia di tutti i presenti.
Segue la sinfonia n. 2 che chiude in bellezza questa serata dedicata a Schumann.
Ne esco contenta, appagata. E, il giorno dopo, la mia personale biblioteca di musica classica si arricchisce di altri 4-5 CD :-)
lunedì 19 novembre 2012
Main dans la main
Ogni anno una puntatina al Festival internazionale del film di Roma mi piace farla. Sì, perché si tratta di andare al cinema a vedere un film, ma anche di partecipare a un evento con tutti gli annessi e connessi: la presenza di regista, attori e produttori in sala, battiti di mani o fischi alla fine del film (in questo caso c'è stato un applauso persino durante il film dopo una scena quasi epica!), la presenza massiccia della stampa, il febbrile lavoro che si svolge dietro il vetro della sala stampa, il tappeto rosso su cui si fanno fotografare protagonisti del mondo del cinema (più o meno famosi).
Quest'anno scelgo di andare a vedere un film francese, Main dans la main, per il quale la proiezione romana rappresenta l'anteprima mondiale (addirittura!). In sala ci sono la regista Valérie Donzelli (che aveva riscosso un certo successo con il suo precedente film, La guerra è dichiarata, che non ho visto e a questo punto vorrei recuperare), i due attori protagonisti (Jérémie Elkaïm, prima compagno della Donzelli nella vita, ora separato, e Valérie Lemercier) e due produttori.
Il film utilizza il genere della commedia per raccontare una storia surreale.
Joachim (Jérémie Elkaïm, premio per la migliore interpretazione maschile) fa il vetraio, ama andare in skateboard, e vive nella casa della sorella (interpretata dalla stessa Valérie Donzelli) insieme al cognato, alle tre figlie e alla nonna centenaria.
Hélène (Valérie Lemercier) dirige la scuola di danza dell'Opera di Parigi. Vive con Constance, a cui la lega un rapporto di complicità e l'esigenza di superare le rispettive solitudini.
Un giorno Joachim viene mandato all'Opera a sostituire un vetro; lì incontra Hélène e dopo un bacio rubato i due sono legati indissolubilmente da una specie di incantesimo: non solo diventano inseparabili, ma i loro corpi rispondono agli input della volontà dell'uno o dell'altro a seconda di chi di volta in volta si impone.
Questa situazione manda in tilt gli equilibri che ciascuno di loro aveva costruito nella propria vita e mette in discussione tutti i legami precedenti.
La vicenda è comica da molteplici punti di vista; si ride moltissimo per le numerose situazioni imbarazzanti e surreali in cui i due si vengono a trovare. Ma - sotto questa apparenza da commedia - si affronta un tema molto serio e importante: quello del sé nel rapporto a due.
In questa storia ci sono molti rapporti a due: quello tra Joachim e sua sorella (che si dicono indivisibili), quello tra Hélène e Constance (che non riescono a fare nulla separatamente), infine quello tra Joachim ed Hélène, che sono forzati all'indivisibilità. Alla fine, tutti questi rapporti - indipendentemente dalla motivazione che li anima - hanno una caratteristica comune, quella di limitare l'espressione del singolo e la piena realizzazione di sé e della propria volontà.
Con una sceneggiatura molto francese, ossia molto parlata, Valérie Donzelli sembra volerci dire che spesso sono l'insicurezza, la solitudine, la paura a spingerci verso legami simbiotici che da un lato ci stanno stretti, ma dall'altro ci danno sicurezza.
La regista chiude però il film con una grande apertura di speranza, fors'anche un po' forzata e sdolcinata, dimostrando che la solitudine è innaturale, ma la simbiosi non è l'unica risposta. È nella faticosa ricerca di sé, nel riconoscimento della necessità di una realizzazione personale, nella consapevolezza della bellezza del condividere senza essere dipendenti che si apre una speranza di vita a due che possa aspirare a evitare la prigione del bisogno che spesso ci scegliamo.
Protagonisti molto in vena, regia brillante, bella colonna sonora. Fastidiosi soltanto l'intervento di una specie di narratore che commenta e fa da eco ai protagonisti e la virata un po' troppo romanticheggiante dell'ultima parte del film, che forse avrebbe funzionato meglio senza un cambio di tono così repentino ed eccessivo.
Voto: 3,5
Quest'anno scelgo di andare a vedere un film francese, Main dans la main, per il quale la proiezione romana rappresenta l'anteprima mondiale (addirittura!). In sala ci sono la regista Valérie Donzelli (che aveva riscosso un certo successo con il suo precedente film, La guerra è dichiarata, che non ho visto e a questo punto vorrei recuperare), i due attori protagonisti (Jérémie Elkaïm, prima compagno della Donzelli nella vita, ora separato, e Valérie Lemercier) e due produttori.
Il film utilizza il genere della commedia per raccontare una storia surreale.
Joachim (Jérémie Elkaïm, premio per la migliore interpretazione maschile) fa il vetraio, ama andare in skateboard, e vive nella casa della sorella (interpretata dalla stessa Valérie Donzelli) insieme al cognato, alle tre figlie e alla nonna centenaria.
Hélène (Valérie Lemercier) dirige la scuola di danza dell'Opera di Parigi. Vive con Constance, a cui la lega un rapporto di complicità e l'esigenza di superare le rispettive solitudini.
Un giorno Joachim viene mandato all'Opera a sostituire un vetro; lì incontra Hélène e dopo un bacio rubato i due sono legati indissolubilmente da una specie di incantesimo: non solo diventano inseparabili, ma i loro corpi rispondono agli input della volontà dell'uno o dell'altro a seconda di chi di volta in volta si impone.
Questa situazione manda in tilt gli equilibri che ciascuno di loro aveva costruito nella propria vita e mette in discussione tutti i legami precedenti.
La vicenda è comica da molteplici punti di vista; si ride moltissimo per le numerose situazioni imbarazzanti e surreali in cui i due si vengono a trovare. Ma - sotto questa apparenza da commedia - si affronta un tema molto serio e importante: quello del sé nel rapporto a due.
In questa storia ci sono molti rapporti a due: quello tra Joachim e sua sorella (che si dicono indivisibili), quello tra Hélène e Constance (che non riescono a fare nulla separatamente), infine quello tra Joachim ed Hélène, che sono forzati all'indivisibilità. Alla fine, tutti questi rapporti - indipendentemente dalla motivazione che li anima - hanno una caratteristica comune, quella di limitare l'espressione del singolo e la piena realizzazione di sé e della propria volontà.
Con una sceneggiatura molto francese, ossia molto parlata, Valérie Donzelli sembra volerci dire che spesso sono l'insicurezza, la solitudine, la paura a spingerci verso legami simbiotici che da un lato ci stanno stretti, ma dall'altro ci danno sicurezza.
La regista chiude però il film con una grande apertura di speranza, fors'anche un po' forzata e sdolcinata, dimostrando che la solitudine è innaturale, ma la simbiosi non è l'unica risposta. È nella faticosa ricerca di sé, nel riconoscimento della necessità di una realizzazione personale, nella consapevolezza della bellezza del condividere senza essere dipendenti che si apre una speranza di vita a due che possa aspirare a evitare la prigione del bisogno che spesso ci scegliamo.
Protagonisti molto in vena, regia brillante, bella colonna sonora. Fastidiosi soltanto l'intervento di una specie di narratore che commenta e fa da eco ai protagonisti e la virata un po' troppo romanticheggiante dell'ultima parte del film, che forse avrebbe funzionato meglio senza un cambio di tono così repentino ed eccessivo.
Voto: 3,5
martedì 13 novembre 2012
La creazione / Franz Joseph Haydn
Premessa: non capisco assolutamente nulla di musica classica, però quest’anno mi sono fatta convincere ad andare a sentire un po’ di concerti al Santa Cecilia.
Il primo è stato La creazione di Haydn ed io, da secchiona quale sono sempre stata, mi sono preparata attentamente. Ho comprato il CD con lo stesso concerto diretto da Leonard Bernstein (mica uno qualunque) e l’ho ascoltato almeno 4-5 volte in modo da abituare un po’ l’orecchio alla musica.
Poi mi sono letta una breve introduzione a questa opera musicale, dalla quale non solo sono riuscita a collocare cronologicamente e geograficamente Haydn, ma ho anche imparato che La creazione appartiene al genere dell’Oratorio (semplificando, un insieme di orchestra e cantato a tematica sacra) e ho scoperto che essa è stata realizzata prima in inglese, perché a Vienna nessuno voleva finanziare Haydn nella realizzazione di qualcosa che lì si considerava già superato, mentre a Londra gli oratori erano ancora molto apprezzati. Questa prima versione inglese (a partire da un libretto scritto per Handel) è stata poi tradotta parola per parola in tedesco, lingua nella quale La creazione è stata portata in scena per la prima volta.
Si tratta di circa due ore di musica in tre parti. Nella prima si narra in musica la creazione del mondo, nella seconda la creazione degli animali e dell’uomo e la terza è dedicata ad Adamo ed Eva.
Per la prima volta in un concerto di questo genere non mi si sono mai chiusi gli occhi, anzi – libretto alla mano – ho seguito tutto con grande partecipazione ed emozione.
E nel mio essere completamente profana e a digiuno di musica classica il passaggio della creazione del sole e della luna mi ha veramente emozionato.
Ovviamente non sono in grado di dire assolutamente niente sulla resa da parte dell’orchestra e coro dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia, diretta da Hartmut Haenchen, e da parte dei cantanti solisti Marita Solberg (soprano), Jeremy Ovenden (tenore) e Kay Stiefermann (basso). A me è sembrato di aver ascoltato un concerto di alto livello e di aver vissuto un’esperienza molto particolare anche nell’assistere al meraviglioso spettacolo di un palco in cui trovano spazio un grande coro, un’orchestra al completo e tre cantanti solisti (un soprano, un baritono e un basso), che con i loro movimenti creano una vera e propria coreografia di accompagnamento all’ascolto.
Mi dicono che la musica classica è principalmente un’emozione e che questo è l’unico dato rilevante nella valutazione. A me La creazione ha emozionato.
(Ma lasciate che per questa volta mi astenga da punteggi, ché non mi sento all’altezza).
Il primo è stato La creazione di Haydn ed io, da secchiona quale sono sempre stata, mi sono preparata attentamente. Ho comprato il CD con lo stesso concerto diretto da Leonard Bernstein (mica uno qualunque) e l’ho ascoltato almeno 4-5 volte in modo da abituare un po’ l’orecchio alla musica.
Poi mi sono letta una breve introduzione a questa opera musicale, dalla quale non solo sono riuscita a collocare cronologicamente e geograficamente Haydn, ma ho anche imparato che La creazione appartiene al genere dell’Oratorio (semplificando, un insieme di orchestra e cantato a tematica sacra) e ho scoperto che essa è stata realizzata prima in inglese, perché a Vienna nessuno voleva finanziare Haydn nella realizzazione di qualcosa che lì si considerava già superato, mentre a Londra gli oratori erano ancora molto apprezzati. Questa prima versione inglese (a partire da un libretto scritto per Handel) è stata poi tradotta parola per parola in tedesco, lingua nella quale La creazione è stata portata in scena per la prima volta.
Si tratta di circa due ore di musica in tre parti. Nella prima si narra in musica la creazione del mondo, nella seconda la creazione degli animali e dell’uomo e la terza è dedicata ad Adamo ed Eva.
Per la prima volta in un concerto di questo genere non mi si sono mai chiusi gli occhi, anzi – libretto alla mano – ho seguito tutto con grande partecipazione ed emozione.
E nel mio essere completamente profana e a digiuno di musica classica il passaggio della creazione del sole e della luna mi ha veramente emozionato.
Ovviamente non sono in grado di dire assolutamente niente sulla resa da parte dell’orchestra e coro dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia, diretta da Hartmut Haenchen, e da parte dei cantanti solisti Marita Solberg (soprano), Jeremy Ovenden (tenore) e Kay Stiefermann (basso). A me è sembrato di aver ascoltato un concerto di alto livello e di aver vissuto un’esperienza molto particolare anche nell’assistere al meraviglioso spettacolo di un palco in cui trovano spazio un grande coro, un’orchestra al completo e tre cantanti solisti (un soprano, un baritono e un basso), che con i loro movimenti creano una vera e propria coreografia di accompagnamento all’ascolto.
Mi dicono che la musica classica è principalmente un’emozione e che questo è l’unico dato rilevante nella valutazione. A me La creazione ha emozionato.
(Ma lasciate che per questa volta mi astenga da punteggi, ché non mi sento all’altezza).
giovedì 8 novembre 2012
Cronache veneziane / Enrico Casarosa
Cronache veneziane: diario di viaggio a matita, acquerelli, luci e ombre di assurdità / Enrico Casarosa; trad. di Elisabetta Sedda. Milano: Rizzoli Lizard, 2012.
Enrico Casarosa è quello del bellissimo cortometraggio La luna che la Pixar ha inserito in apertura dell'ultimo film Ribelle.
Enrico Casarosa è quello del bellissimo cortometraggio La luna che la Pixar ha inserito in apertura dell'ultimo film Ribelle.
Enrico è anche uno di quegli italiani che, per poter fare della propria passione un lavoro, ha lasciato l'Italia alla volta degli Stati Uniti, San Francisco, e che, grazie alle sue capacità, è finito alla Pixar, quella fucina di talenti che ha rivoluzionato il mondo dell'animazione digitale.
Ma Casarosa è anche e soprattutto un disegnatore, un narratore di storie per immagini. E ne dà dimostrazione in questo bel lavoro appena uscito, Cronache veneziane.
Questo graphic novel racconta fondamentalmente una storia d'amore, e i numerosi viaggi in aereo che l'hanno costellata: dagli Stati Uniti a Venezia e ritorno, da San Francisco al Messico e ritorno, dagli Stati Uniti a Genova e ritorno.
In realtà, dal punto di vista strettamente narrativo, l'andamento è molto frammentario, tenuto insieme dal dialogo costante del protagonista, lo stesso Enrico, con la sua coscienza buona e quella cattiva nella forma classica di un "angioletto" e di un "diavoletto". Proprio questi dialoghi sono forse l'aspetto meno riuscito di Cronache veneziane, per quel po' di stucchevolezza ed adolescenzialità che inevitabilmente li caratterizza.
È invece molto convincente - nonché profondamente romantica - la storia d'amore ivi raccontata, che è poi quella tra Enrico e la ballerina Marit, prima sua fidanzata, poi moglie. È questa storia d'amore che stimola i passaggi più belli, più divertenti, più commoventi e veri.
Ma Casarosa è anche e soprattutto un disegnatore, un narratore di storie per immagini. E ne dà dimostrazione in questo bel lavoro appena uscito, Cronache veneziane.
Questo graphic novel racconta fondamentalmente una storia d'amore, e i numerosi viaggi in aereo che l'hanno costellata: dagli Stati Uniti a Venezia e ritorno, da San Francisco al Messico e ritorno, dagli Stati Uniti a Genova e ritorno.
In realtà, dal punto di vista strettamente narrativo, l'andamento è molto frammentario, tenuto insieme dal dialogo costante del protagonista, lo stesso Enrico, con la sua coscienza buona e quella cattiva nella forma classica di un "angioletto" e di un "diavoletto". Proprio questi dialoghi sono forse l'aspetto meno riuscito di Cronache veneziane, per quel po' di stucchevolezza ed adolescenzialità che inevitabilmente li caratterizza.
È invece molto convincente - nonché profondamente romantica - la storia d'amore ivi raccontata, che è poi quella tra Enrico e la ballerina Marit, prima sua fidanzata, poi moglie. È questa storia d'amore che stimola i passaggi più belli, più divertenti, più commoventi e veri.
Al di là dei contenuti narrativi, il lavoro di Enrico Casarosa è pieno di chicche e invenzioni. Innanzitutto gli splendidi acquerelli che ci regala, in particolare quelli veneziani, poi gli straordinari disegni degli spettacoli di danza della compagnia di Marit (sia quelli a carboncino, sia quelli fatti al buio con la matita che non si stacca mai dal foglio), i disegni di Marit e dei genitori durante la gita veneziana, le ricostruzioni di interni, i disegni in soggettiva di se stesso al lavoro, gli spunti ironici ed autoironici, il rimando al fumetto multimediale realizzato per il compleanno di Marit.
Ne viene fuori il ritratto di una persona per la quale il rapporto tra la vita e il disegno è costante e profondamente complesso. Casarosa fa passare attraverso le sue matite e i suoi acquerelli qualunque emozione ed evento significativo della vita, a volte ricrea la vita attraverso il disegno, altre volte il disegno aggiunge spessore alla vita.
Dunque, non solo vita e letteratura possono essere intrecciati al punto tale da risultare indistinguibili e indivisibili, ma anche vita e disegno, come Casarosa ci dimostra.
Voto: 3,5/5
Ne viene fuori il ritratto di una persona per la quale il rapporto tra la vita e il disegno è costante e profondamente complesso. Casarosa fa passare attraverso le sue matite e i suoi acquerelli qualunque emozione ed evento significativo della vita, a volte ricrea la vita attraverso il disegno, altre volte il disegno aggiunge spessore alla vita.
Dunque, non solo vita e letteratura possono essere intrecciati al punto tale da risultare indistinguibili e indivisibili, ma anche vita e disegno, come Casarosa ci dimostra.
Voto: 3,5/5
domenica 4 novembre 2012
Io e te
Ed eccomi all'ennesimo film (dopo Un sapore di ruggine e ossa, Tutti i santi giorni e L'intervallo) i cui protagonisti sono un ragazzo e una ragazza, Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) e Olivia (Tea Falco).
Sarà l'atmosfera generale determinata dalla crisi finanziaria e dalle politiche di austerity, ma sembra proprio che il cinema (non solo quello italiano a quanto pare) si stia ritirando su una dimensione intima, quasi minimale, accentuando una tendenza che nel cinema italiano degli ultimi decenni è stata particolarmente evidente.
L'ultimo film di Bernando Bertolucci, intitolato Io e te, è tratto dall'omonimo libro di Niccolò Ammaniti e da Ammaniti eredita un'ambientazione claustrofobica che sembra essere un leitmotiv per lo scrittore (la buca di Io non ho paura, il bosco buio con la pioggia di Come Dio comanda). In questo caso siamo dentro la cantina della casa di Lorenzo, quella dove il ragazzo si rifugia per sfuggire alla settimana bianca con la scuola, la stessa dove troverà riparo anche Olivia, la sorellastra.
Lorenzo e Olivia sono due emarginati.
Il primo ha scelto di auto-isolarsi e di guardare il mondo dall'esterno con la sua lente di ingrandimento, come fosse il formicaio che ha comprato, così da non esserne toccato e non soffrire.
La seconda è talmente all'interno delle emozioni da esserne travolta. Non riesce a superare l'abbandono della famiglia da parte del padre (che poi ha sposato la madre di Lorenzo) e proietta sugli altri uomini della sua vita questo primordiale rifiuto. È tossicodipendente e giunge nella cantina dove si è accampato Lorenzo in piena crisi di astinenza.
In questo spazio fuori dal mondo, queste due anime ipersensibili e dunque destinate in qualche modo alla sconfitta si incontrano e si rispecchiano. Ma il riscatto non è automatico, perché la vita è complessa e il nostro mondo interiore soverchia la nostra volontà.
Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco sono "inquietanti" al punto giusto per questo film e si addicono perfettamente a quel non so che di forzato e vagamente sopra le righe che spesso caratterizza i film di Bertolucci.
Il tutto può piacere o lasciare parzialmente indifferenti. Personalmente appartengo più alla seconda categoria.
Voto: 2,5/5