Il film ha vinto il Leone d'Oro a Venezia e Kim Ki-Duk è una specie di mostro sacro della cinematografia contemporanea, osannato per l'originalità e la qualità della sua produzione. Dunque mi riesce difficile andare un pochino controcorrente.
In realtà a me Kim Ki-Duk piace, e anche molto. Ho adorato Ferro 3 - La casa vuota e mi erano anche piaciuti - nell'ordine - Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, L'isola e Time. Di quei film avevo apprezzato lo stile narrativo del tutto alieno rispetto a quello occidentale, l'apparente illogicità delle azioni e delle sequenze narrative, la sottotrama fortemente simbolica, lo spazio di immaginazione lasciato allo spettatore.
Insomma, un film di Kim Ki-Duk rispetto ad uno occidentale è come la scrittura a ideogrammi a confronto con quella alfabetica, ossia una scrittura evocativa, esplorativa, apparentemente slegata nelle sue componenti, dai significati multipli, rispetto ad una basata su un'efficienza razionale puramente finalizzata alla comunicazione.
Per tutti questi motivi Pietà mi ha lasciata un po' interdetta. E non per lo squallore intrinseco che volutamente trasuda da ogni inquadratura, non per l'effetto disturbante prodotto da una crudeltà fredda e da un'umanità degradata (ha ragione Marianna Cappi di Mymovies quando scrive che in qualche modo torna in mente la trilogia sulla vendetta di Park Chan-Wook), non per alcuni passaggi narrativi illogici, non per qualche elemento di comicità involontaria ad una lettura occidentale, bensì per una sceneggiatura studiata a tavolino, che finisce per risultare eccessivamente didascalica.
Il cinquantenne (circa) Kim Ki-Duk deve essere a un momento della sua vita in cui - guardandosi intorno - vede una società in declino e un'umanità sempre più disumana, per effetto della corruzione dei soldi e della disgregazione dei legami affettivi, primariamente quelli familiari.
L'individuo senza affetti e collocato nelle nostre disumane metropoli diventa un mostro privo di scrupoli.
Questo è il protagonista Kang-Do (Lee Jung-Jin), che riscuote i debiti dei lavoratori di un'area artigianale e sempre più povera della città per conto di uno strozzino e, lì dove il debitore non abbia da pagare, lo storpia per incassare i soldi dell'assicurazione. Fino a quando incontra quella che sembrerebbe essere la madre che lo ha abbandonato da piccolo (Jo Min-Su) e che è pronta a subire qualunque cosa pur di essere perdonata.
Ma la verità non è come appare e la vendetta sarà terribile e catartica, come il finale sulle note - a mio avviso un po' stonate rispetto al contesto - del Kyrie Eleison/Miserere.
Kim Ki-Duk ci srotola davanti il suo ingranaggio narrativo, in cui ogni cosa trova un suo esito e a causa segue effetto. Il regista dice di aver voluto fare un film destinato alle "masse", con una portata "universale" e non a caso attinge anche ad un immaginario religioso che non gli è proprio (per quanto io legga che il Cristianesimo è la terza religione più diffusa in Corea e lo stesso regista ha avuto da giovane una crisi religiosa).
Forse è proprio questo il suo limite: aver voluto innestare una narrativa comprensibile in ogni angolo del pianeta sul proprio linguaggio culturalmente e geograficamente determinato, e soprattutto su una poetica che si è sempre caratterizzata per una cifra narrativa differente.
Insomma, il fatto è che un certo tipo di melò con tanto di morale in fondo lo posso accettare da un regista occidentale (e già mi dà un po' fastidio), ma non da Kim Ki-Duk da cui invece mi aspetto che mi spiazzi, mi sottragga elementi interpretativi, mi lasci senza una risposta.
Preparatevi comunque a uscire dal cinema come se qualcuno vi avesse dato un pugno nello stomaco.
Voto: 3/5
P.S. Consiglio la visione in lingua originale perché il doppiaggio è da dimenticare!
sono d'accordo con quello che dici, ne ho scritto nella stessa direzione, ma tu hai argomentato meglio:)
RispondiEliminaBella la tua recensione... Kim Ki-Duk ha rinunciato ad alcune sue caratteristiche, e questa cosa si vede!
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