I film di Ozpetek li ho visti quasi tutti. Mi mancano all’appello solo uno dei suoi primissimi, Harem Suaré, che conto prima o poi di recuperare, e Cuore sacro che invece mi sono rifiutata di andare a vedere.
Trovo che il regista italo-turco abbia sostanzialmente una poetica coerente, anche quando si allontana dai suoi temi privilegiati, sebbene – a mio modesto avviso – dà il meglio di sé quando racconta i mondi che conosce meglio e le realtà a lui più vicine, di cui riesce a tirar fuori vizi e virtù in maniera del tutto originale.
Con Magnifica presenza mi pare si possa affermare che ci troviamo di fronte a una specie di divertissement cinematografico, un film d’occasione che – muovendo da un dato di cronaca (l’annunciata chiusura del Teatro Valle a Roma e la sua occupazione che dura ormai da mesi e che ha dato origine a una specie di maratona artistica di tutto rilievo) – propone un personalissimo omaggio ozpetekiano al mondo del teatro.
In questo omaggio trovano posto e composizione tutti i temi cari al regista: l’identità sessuale, la famiglia allargata, il travestimento, le verità nascoste, la lotta per la libertà in tutte le sue declinazioni, nonché una colonna sonora italo-turca sempre di altissimo livello.
Qualche elemento risulta eccessivo e in definitiva poco chiaro – come ad esempio l’incontro di Pietro (il bravissimo Elio Germano, ormai l’attore del momento) con la badessa – ma anche questi eccessi e l’inevitabile sopra le righe fanno parte della cifra stilistica del regista.
In fondo, basterebbe quanto fin qui detto per farne un buon film e garantirne gradevolezza.
A me però questa lettura non basta, perché non riesco a fare a meno di pensare che in un film di questo genere non ci sia anche una riflessione più ampia, un valore simbolico che vada al di là di quello che vediamo. Senza dover per forza scomodare Pirandello e inoltrarmi in terreni accidentati come quelli che alcune critiche propongono (e che non mi sento in ogni caso di smentire), personalmente mi è sembrato che il fulcro del film sia il palcoscenico, quello riconoscibile come tale del teatro in cui si chiude la narrazione con i nostri fantasmi-personaggi che ritrovano il loro mondo, ma anche quello quotidiano delle vite che viviamo.
I fantasmi con cui Pietro viene in contatto nella casa che ha preso in affitto (la compagnia Apollonio al completo, scomparsa durante il periodo della seconda guerra mondiale) sono rimasti intrappolati in un ruolo che la morte gli ha impedito di recitare compiutamente e sono destinati a ripeterlo all’infinito fino a quando qualcuno non li aiuterà a scoprire la verità. Ma in fondo non è lo stesso per Pietro, omosessuale che non ha ancora trovato il modo di vivere la propria identità? Non è lo stesso per sua cugina, intrappolata a sua volta nel personaggio della giovane donna usata dagli uomini? Non è perennemente così per il trans che Pietro soccorre per strada e che da tutta la vita recita un personaggio? Non è così per Livia Morosini che da tutta la vita cela la sua vera identità al mondo intero? E non è in qualche modo così anche per le due bariste che a loro modo recitano ogni giorno la loro scena dietro il bancone del loro bar?
Le dicotomie “menzogna/verità” e “finzione/realtà” tornano instancabilmente e forse anche troppo didascalicamente durante tutto il film, costringendoci continuamente a chiederci se le une o le altre si trovino effettivamente dove ce le aspettiamo. Ozpetek guarda questo mescolarsi continuo e inestricabile da due osservatori privilegiati: quello del cinema – dove anche le vite reali degli attori si svolgono in fondo su un palcoscenico – e quello del mondo omosessuale – dove costruirsi un personaggio che corrisponda all’immagine di sé è fenomeno diffuso e a volte quasi ossessivo.
Ci si potrebbe aspettare che l’incontro di Pietro con questo originale gruppo di fantasmi trasformi il racconto in un romanzo di formazione al termine del quale il nostro spaesato e confuso protagonista ha fatto chiarezza dentro di sé e si è affacciato finalmente alla vita vera. Ma non è così.
Perché i personaggi troveranno il loro palcoscenico proprio grazie a Pietro, ma lui è lì in platea a guardarli con lo sguardo ingenuo e commosso da bambino mai cresciuto che lo caratterizza fin dalla prima scena.
Il palcoscenico della vita di Pietro è ancora tutto da costruire: non esiste un copione da recitare e i silenzi vanno riempiti con la propria creatività e sensibilità.
Certo, resta un film spiazzante. E per questo sta già suscitando reazioni spesso diametralmente opposte (si vedano per esempio questa recensione e quest'altra).
A me è piaciuto; non è però al vertice della mia personale classifica ozpetekiana.
Voto: 3/5
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