Stimolata dalla presenza a Roma di un gruppo di amiche non romane, lo scorso è stato un weekend caratterizzato da una full immersion nell'offerta di mostre della Capitale.
Il sabato è stata interamente dedicato al Palazzo delle Esposizioni, che - dopo essere stato chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione - è stato riaperto da qualche anno con un'offerta davvero molto interessante e varia, resa possibile anche dai grandi spazi a disposizione.
In questo periodo, con il biglietto d'ingresso - che è possibile ottenere ridotto mostrando di essere titolari di tessere come quella Feltrinelli o Arci - è possibile visitare tre mostre che, obiettivamente, in una giornata è difficile gustarsi con calma e per intero.
La prima che abbiamo visitato è quella dedicata ai Realismi socialisti, ossia alla Grande pittura sovietica 1920 - 1970, che resterà aperta fino all'8 gennaio 2012.
Il percorso della mostra è strettamente cronologico, e le sale che si sviluppano attorno all'atrio centrale offrono ciascuna un approfondimento su un arco cronologico omogeneo dal punto di vista storico e culturale. Questo filone della riscoperta della pittura sovietica non è nuovo per il Palazzo delle Esposizioni, visto che da febbraio a maggio di quest’anno è stata dedicata una mostra monografica ad Aleksandr Deineka. Il maestro sovietico della modernità, del quale nella mostra attualmente in corso sono esposte alcune opere che inseriscono più chiaramente la sua poetica all’interno di una specifica temperie culturale e artistica.
Della pittura sovietica di questo cinquantennio (1920-1970) colpisce l’inevitabile parabola che da un’iniziale fase caratterizzata da una variegata sperimentazione artistica, in linea con le più importanti correnti d’avanguardia europee, vira verso contenuti e stili smaccatamente di propaganda, per effetto delle politiche culturali restrittive del regime, fino a soluzioni più intimistiche e sempre più lontane dai dettami imposti dall’alto. Il che non vuole dire che la pittura di propaganda sia realmente appiattita e ripetitiva, perché gli artisti – pur costretti in maglie molto strette – riescono comunque a esprimere emozioni, sentimenti e punti di vista spesso originali e del tutto personali.
Mentre attraversiamo le sale dedicate alla pittura sovietica l’occhio ci cade sul punto di ingresso – per dire la verità un po’ nascosto – alla seconda mostra in programma, quella dedicata ad Aleksandr Rodčenko.
A me il nome di Rodčenko non diceva assolutamente nulla prima di scoprire – grazie a questa mostra – che si tratta di uno degli artisti più eclettici del Novecento e certamente tra quelli che hanno lasciato un segno forte sul gusto grafico e fotografico contemporaneo. Al punto tale che facilmente balzerà all’occhio del visitatore che l’immagine scelta come locandina della mostra è esplicitamente richiamata nella copertina dell’album You Can Have It So Much Better di uno dei gruppi più di tendenza degli ultimi anni, i Franz Ferdinand.
Girando per le sale e osservando i lavori di Rodčenko, che spaziano dalla composizione tipografica e grafica, ai fotomontaggi, ai ritratti, alle fotografie urbane, ai reportage, mi cade l’occhio su un'altra opera famosissima dell’autore, quel Ritratto di madre che è stato oggetto di studio di molti corsi e ricerche in ambito fotografico.
A me di questa carrellata nel mondo di Rodčenko resteranno impressi i suoi sguardi obliqui, i suoi punti di vista originali, le sue foto ravvicinate di ingranaggi industriali e – sopra tutto – la vastità e varietà delle sue creazioni.
È ormai passata più di mezza giornata dal nostro ingresso al Palazzo delle Esposizioni, ma non possiamo certo perdere la terza delle mostre in corso, che occupa l’intero primo piano, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, la mostra curata da Luigi Cavalli Sforza e Telmo Pievani. Entriamo dalla parte sbagliata cosicché tutto ci sembra incomprensibile, ma quando finalmente chiediamo aiuto e veniamo ricondotte al punto di partenza ci facciamo catturare nell’incredibile viaggio raccontato da questa mostra, il viaggio dell’uomo, quello che ha dato vita alla specie umana cui apparteniamo.
Questo racconto, fatto di introduzioni scritte, di ricostruzioni tridimensionali, di reperti, di video e di soluzioni interattive, mette in discussione tutti i miei convincimenti in merito all’evoluzione e alle origini dell’uomo, visto che a scuola mi avevano insegnato che discendiamo dall’homo sapiens, ma che questo a suo volta aveva avuto come progenitore l’homo neandertalensis. E invece tutto falso, visto che queste due specie probabilmente si sono sviluppate da un ceppo comune ma hanno avuto percorsi evolutivi differenti, a conclusione dei quali non si sa bene perché l’homo sapiens è sopravvissuto e ha popolato la terra e quello neanderthalensis si è estinto. Eppure quest’ultimo pare avesse potenzialità cognitive paragonabili e un livello di adattamento al contesto addirittura superiore al primo.
Il percorso espositivo non solo ci racconta quando e come sono comparsi sulla terra i primi ominidi, ma anche come le diverse specie si sono evolute e in molti casi estinte, dopo aver raggiunto terre lontane migliaia di chilometri dal loro punto di partenza, tutto questo in parallelo con gli straordinari cambiamenti della flora e della fauna sulla terra. Inoltre ci racconta come l’homo sapiens sia sopravvissuto alle glaciazioni e come abbia scoperto l’arte, l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, che hanno rappresentato il punto di partenza della crescita della civiltà e di quella che ci hanno insegnato a chiamare storia.
L’ultima sezione della mostra riepiloga la molteplicità e complessità dei contenuti esposti attirando il visitatore in una serie di divertenti giochi interattivi, come quello del riconoscimento delle razze, oppure quello che ci porta a scoprire la provenienza degli oggetti e dei concetti con cui abbiamo a che fare ogni giorno, o ancora il racconto animato e proiettato dell’evoluzione che chiude il percorso.
Personalmente ci avrei passato giorni. E devo dire che - nonostante la complessità della materia e forse l’eccesso di comunicazione scritta che caratterizza la mostra – sono uscita non solo sapendo certamente qualcosa di più sull'evoluzione umana, ma anche con numerosi stimoli alla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura, sulle presunte differenze razziali, sul mistero profondo e al contempo il senso di casualità a cui è inevitabilmente riconducibile la nostra esistenza umana.
Fatto il pieno di mostre, resta giusto il tempo per qualche fotografia delle vetrine che – nella libreria del Palazzo delle Esposizioni - presentano le opere realizzate da una mia amica siciliana, creatrice del marchio Antico Valore, che realizza artigianalmente piccoli libri che diventano poi protagonisti di orecchini e collane. La sera ci aspetta una cena pugliese che mi vedrà alla prova sulle braciole (piccoli involtini ripieni di aglio, prezzemolo e pecorino) fatti cuocere nella salsa di pomodoro poi utilizzata per condire anche la pasta. Slurp!!!
La domenica il nostro tour culturale continua. Questa volta la destinazione è il MAXXI, il Museo di Arte del XXI secolo, edificio progettato da Zaha Hadid, l’architetto iracheno ormai conosciuto in tutto il mondo. Dal punto di vista architettonico il MAXXI è una realizzazione di grande impatto, con i suoi volumi semplici che si intersecano creando prospettive originali e sorprendenti. Va sottolineato che, a differenza di molte altre capitali europee, Roma è stata sin qui profondamente restia a lasciarsi colonizzare dall’architettura contemporanea. E probabilmente non a torto.
Forse per questo anche lì dove si è consentito agli architetti contemporanei di lasciare il proprio segno sul tessuto urbano si sono scelti progetti di grande qualità, ma al contempo capaci di comunicare con lo spirito e la storia di Roma. Quella del MAXXI è una realizzazione che mi rende orgogliosa della città in cui vivo, perché ha certamente conferito identità a quest’area, creando una continuità geografica ed ideale dal punto di vista architettonico tra l’Auditorium di Renzo Piano, il Palazzetto dello Sport di Perluigi Nervi e il nuovo ponte sul Tevere disegnato da Calatrava.
Ma, come nel caso dell’Auditorium, il segno architettonico non basta a creare un spazio vivibile ed accogliente se mancano i contenuti. E così, se il Parco della Musica è diventato una vera e propria fucina e piazza culturale per la città, il MAXXI si sta già proponendo come vetrina di linguaggi artistici nuovi, spazio di libertà e sperimentazione culturale.
In questo periodo il Museo ospita una mostra dal titolo Indian Highway, dedicata alla produzione (installazioni, grafica, video, pittura, opere polimateriche etc.) di giovani artisti indiani. Ci siamo andate attirate principalmente dal contenitore architettonico e invece la mostra ci ha positivamente sorprese.
Ai nostri occhi si è rivelata un’India in pieno fermento artistico e culturale, un paese che ha assorbito la lezione di stile dell’arte contemporanea occidentale, ma che ha mantenuto forte il legame con le sue radici, un paese con una profonda consapevolezza di sé e delle sue contraddizioni, con un sorprendente senso critico nei confronti del proprio passato e del proprio presente.
Si resta così sbalorditi di fronte all’installazione che ricostruisce un vecchio ufficio pubblico, con le catene che tengono legate e al sicuro dai furti tavoli e sedie e le gavette sotto ogni scrivania, o a quella che rappresenta la densità di una metropoli indiana con materiali di recupero sulle pareti interne di una stanza, o ancora il corridoio decadente in cui strani santini si affacciano dagli strappi nella carta da parati, per non parlare della foresta di incensi, delle serie a fumetti e delle numerose video-installazioni che ci sarebbero voluti due giorni per godersi appieno.
Ancora uno sguardo dall’ideale prua di questo edificio-bastimento, dalla cui vetrata aggettante sembra di essere sospesi nel vuoto, una discesa dalle scale che a tratti sembrano quelle impossibili di un edificio di Escher, una sosta sui divanetti argentati di design al piano terra, e poi eccoci di nuovo nella nostra Pandina del Car Sharing dirette verso la stazione dove ci aspetta il treno che porterà a casa le mie amiche.
Roma è una città faticosa. Non c’è dubbio.
Ma sa presentarsi nella luce migliore a chi la visita. E a volte sa farsi amare anche da chi ci vive.
Come questa volta.
lunedì 28 novembre 2011
mercoledì 16 novembre 2011
Fratelli / Alessandro Tota
Fratelli / Alessandro Tota. Bologna: Coconino Press, 2011.
Avevo molto amato il lavoro precedente di Alessandro Tota, Yeti, la storia di un diverso e della sua difficile integrazione in un mondo estraneo, al punto che la sua unica espressione “gnu” è diventata parte integrante del mio vocabolario.
Con queste premesse, quando ho visto in libreria il suo nuovo lavoro Fratelli, ricordo di adolescenza ambientato nella Bari degli anni ’90, non ho potuto fare a meno di comprarlo. Questo lavoro ha il merito di ricostruire e comunicare perfettamente il senso di sbandamento che attraversava quella generazione di giovani. Spesso senza una prospettiva, senza un’ideologia di riferimento, strafatti di canne e spesso trascinati nel tunnel dell'eroina.
Tutto questo in una Bari fortemente degradata, attraversata da sbandati di ogni tipo, a volte anche teneri, altre volte pericolosi per se stessi e per gli altri.
Tale affresco della generazione dei giovani degli anni ’90 si compone principalmente di due parti, una prima che dà il titolo all’albo, ossia quella che racconta un frammento di storia di questi due fratelli, Nerone e Cosimo, il primo traffichino e con l’unico obiettivo nella vita di riuscire a “campare” senza lavorare, il secondo dotato di una vena intellettuale, ma un po’ ritardato nella dinamica relazionale, e del loro rapporto con due genitori preoccupati e rassegnati allo stesso tempo. Storia tenera, amara, divertente e tragica allo stesso tempo.
La seconda parte si allontana dalla vicenda particolare dei due fratelli per allargare lo sguardo al gruppo dei loro amici, e in particolare al difficile rapporto con la vita di Claudio e Nicola, il primo studente deluso, incuriosito da poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti che in quegli anni trova solo nella droga, il secondo senz’altra motivazione e spinta emotiva che farsi di cocaina e di eroina. Entrambi di buona famiglia, ma senza che questo riesca realmente a sottrarli a un’atmosfera complessiva priva di stimoli positivi.
Un lavoro complessivamente interessante questo di Alessandro Tota, anche se a mio avviso un po’ discontinuo e frammentato dal punto di vista narrativo e dei contenuti, nonché della cifra emotiva. Un lavoro che, se nella prima parte riesce a toccare corde in qualche modo universali, nella seconda resta un po’ freddamente documentaristico e, girata l’ultima pagina, lascia un po’ di amaro in bocca perché ci si sarebbe aspettati qualcosina di più.
Voto: 2,5/5
Avevo molto amato il lavoro precedente di Alessandro Tota, Yeti, la storia di un diverso e della sua difficile integrazione in un mondo estraneo, al punto che la sua unica espressione “gnu” è diventata parte integrante del mio vocabolario.
Con queste premesse, quando ho visto in libreria il suo nuovo lavoro Fratelli, ricordo di adolescenza ambientato nella Bari degli anni ’90, non ho potuto fare a meno di comprarlo. Questo lavoro ha il merito di ricostruire e comunicare perfettamente il senso di sbandamento che attraversava quella generazione di giovani. Spesso senza una prospettiva, senza un’ideologia di riferimento, strafatti di canne e spesso trascinati nel tunnel dell'eroina.
Tutto questo in una Bari fortemente degradata, attraversata da sbandati di ogni tipo, a volte anche teneri, altre volte pericolosi per se stessi e per gli altri.
Tale affresco della generazione dei giovani degli anni ’90 si compone principalmente di due parti, una prima che dà il titolo all’albo, ossia quella che racconta un frammento di storia di questi due fratelli, Nerone e Cosimo, il primo traffichino e con l’unico obiettivo nella vita di riuscire a “campare” senza lavorare, il secondo dotato di una vena intellettuale, ma un po’ ritardato nella dinamica relazionale, e del loro rapporto con due genitori preoccupati e rassegnati allo stesso tempo. Storia tenera, amara, divertente e tragica allo stesso tempo.
La seconda parte si allontana dalla vicenda particolare dei due fratelli per allargare lo sguardo al gruppo dei loro amici, e in particolare al difficile rapporto con la vita di Claudio e Nicola, il primo studente deluso, incuriosito da poesia e letteratura, ma alla ricerca di esperienze forti che in quegli anni trova solo nella droga, il secondo senz’altra motivazione e spinta emotiva che farsi di cocaina e di eroina. Entrambi di buona famiglia, ma senza che questo riesca realmente a sottrarli a un’atmosfera complessiva priva di stimoli positivi.
Un lavoro complessivamente interessante questo di Alessandro Tota, anche se a mio avviso un po’ discontinuo e frammentato dal punto di vista narrativo e dei contenuti, nonché della cifra emotiva. Un lavoro che, se nella prima parte riesce a toccare corde in qualche modo universali, nella seconda resta un po’ freddamente documentaristico e, girata l’ultima pagina, lascia un po’ di amaro in bocca perché ci si sarebbe aspettati qualcosina di più.
Voto: 2,5/5
giovedì 10 novembre 2011
Crociate / con Valerio Binasco
Dal 25 ottobre al 6 novembre è andato in scena al teatro Piccolo Eliseo di Roma lo spettacolo Crociate, un monologo interpretato da Valerio Binasco per la regia di Gabriele Vacis.
Difficile raccontare in poche parole questo spettacolo, tanto che anche le presentazioni che si trovano in giro per la rete o la rassegna stampa messa a disposizione dal sito del teatro non mi pare consentano realmente di farsi un’idea di quello che ci aspetta.
Eh sì, perché è assolutamente vero che Crociate è liberamente ispirato all’opera illuministica di Gotthold Ephraim Lessing Nathan Il saggio; è assolutamente vero che affronta il tema del rapporto tra le grandi religioni monoteiste; è assolutamente vero che è un invito alla pace e alla tolleranza. Ma, detto così, potreste pensare a un lavoro dal tema un po’ abusato e po’ retorico.
Invece, il monologo di Valerio Binasco è in qualche modo sorprendente, per due motivi principali: innanzitutto perché il testo (sempre grazie a Gabriele Vacis) è molto più articolato e va ben al di là della storia di Nathan Il Saggio, in secondo luogo perché Binasco conferisce vitalità, ironia ed emozione a un racconto che a tratti potrebbe anche risultare piatto.
Per quanto riguarda il testo, alla complessa storia di Nathan, di sua figlia Rachel, del templare e del sultano Saladino si intrecciano ricordi personali, l’omaggio a un compagno di classe, la citazione di classici letterari tra cui una poesia di Elsa Morante, riflessioni generali, frammenti di storia, riferimenti al presente. Il tutto condito dalla simpatia di Valerio Binasco, che - da solo su un palcoscenico in parte coperto di specchi - gioca con un grande telo bianco a volte utilizzato come sipario, altre volte come mantello, altre volte ancora come “controsoffitto” ad attenuare le luci, e interpreta vari personaggi umanizzandoli attraverso la scelta di un accento regionale italiano.
Ne viene fuori l’affresco di una vita umana che da sempre si confronta con le religioni e soprattutto con la ricerca di un senso ultimo, di una trascendenza, di un disegno che in qualche modo conferisca significato alle nostre piccole o grandi esistenze, per constatare infine che la nostra esistenza come singole persone e come umanità è – come recita Binasco citando la Morante de Il mondo salvato dai ragazzini – un «arabesco indecifrabile [...] dato per la gioia del suo movimento, non per la soluzione del suo teorema».
Per quanto riguarda la presenza di Binasco in scena, il suo stile un po’ low profile potrebbe disturbare chi - di fronte a un testo e a una fonte letteraria di così nobile ascendenza - si aspettasse un approccio aulico e molto “teatrale”. Invece il tutto si presenta come una chiacchierata informale con il pubblico, che Binasco guarda negli occhi. E sulla sua fronte si vede il sudore della fatica di un monologo di un’ora e mezza sotto i riflettori e nei suoi occhi la commozione quando ci racconta dell’amico Bottazzi.
Non so se questo teatro che risulta alla fine in qualche modo divulgativo sia grande teatro. Certo è un teatro che coinvolge, che piace al pubblico e che trasmette contenuti importanti. E quindi è assolutamente il benvenuto.
Voto: 3/5
Difficile raccontare in poche parole questo spettacolo, tanto che anche le presentazioni che si trovano in giro per la rete o la rassegna stampa messa a disposizione dal sito del teatro non mi pare consentano realmente di farsi un’idea di quello che ci aspetta.
Eh sì, perché è assolutamente vero che Crociate è liberamente ispirato all’opera illuministica di Gotthold Ephraim Lessing Nathan Il saggio; è assolutamente vero che affronta il tema del rapporto tra le grandi religioni monoteiste; è assolutamente vero che è un invito alla pace e alla tolleranza. Ma, detto così, potreste pensare a un lavoro dal tema un po’ abusato e po’ retorico.
Invece, il monologo di Valerio Binasco è in qualche modo sorprendente, per due motivi principali: innanzitutto perché il testo (sempre grazie a Gabriele Vacis) è molto più articolato e va ben al di là della storia di Nathan Il Saggio, in secondo luogo perché Binasco conferisce vitalità, ironia ed emozione a un racconto che a tratti potrebbe anche risultare piatto.
Per quanto riguarda il testo, alla complessa storia di Nathan, di sua figlia Rachel, del templare e del sultano Saladino si intrecciano ricordi personali, l’omaggio a un compagno di classe, la citazione di classici letterari tra cui una poesia di Elsa Morante, riflessioni generali, frammenti di storia, riferimenti al presente. Il tutto condito dalla simpatia di Valerio Binasco, che - da solo su un palcoscenico in parte coperto di specchi - gioca con un grande telo bianco a volte utilizzato come sipario, altre volte come mantello, altre volte ancora come “controsoffitto” ad attenuare le luci, e interpreta vari personaggi umanizzandoli attraverso la scelta di un accento regionale italiano.
Ne viene fuori l’affresco di una vita umana che da sempre si confronta con le religioni e soprattutto con la ricerca di un senso ultimo, di una trascendenza, di un disegno che in qualche modo conferisca significato alle nostre piccole o grandi esistenze, per constatare infine che la nostra esistenza come singole persone e come umanità è – come recita Binasco citando la Morante de Il mondo salvato dai ragazzini – un «arabesco indecifrabile [...] dato per la gioia del suo movimento, non per la soluzione del suo teorema».
Per quanto riguarda la presenza di Binasco in scena, il suo stile un po’ low profile potrebbe disturbare chi - di fronte a un testo e a una fonte letteraria di così nobile ascendenza - si aspettasse un approccio aulico e molto “teatrale”. Invece il tutto si presenta come una chiacchierata informale con il pubblico, che Binasco guarda negli occhi. E sulla sua fronte si vede il sudore della fatica di un monologo di un’ora e mezza sotto i riflettori e nei suoi occhi la commozione quando ci racconta dell’amico Bottazzi.
Non so se questo teatro che risulta alla fine in qualche modo divulgativo sia grande teatro. Certo è un teatro che coinvolge, che piace al pubblico e che trasmette contenuti importanti. E quindi è assolutamente il benvenuto.
Voto: 3/5
lunedì 7 novembre 2011
La kryptonite nella borsa
Quello di Ivan Cotroneo non è certamente un nome nuovo. Personalmente lo associo al romanzo Cronaca di un disamore che avevo letto un po’ di anni fa a seguito della fine di una storia e che avevo trovato bello, anche se un pochino deprimente, ma anche alle numerose sceneggiature firmate per importanti film di importanti registi italiani, non ultima quella di Mine vaganti di Ferzan Ozpetek.
Con La kryptonite nella borsa Cotroneo fa il salto dalla storia scritta a quella raccontata per immagini e si cimenta – con ottimi risultati – dietro la macchina da presa, sostenuto da una sceneggiatura scritta da lui stesso e da un gruppo di lavoro di grande qualità e mestiere: dal cast formato da attori quali Luca Zingaretti, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo, a un direttore della fotografia del calibro di Luca Bigazzi (che ha dato poco firmato anche il film di Sorrentino) a una colonna sonora sempre accattivante come è quella degli anni ’70.
Non so se ci sia qualcosa di autobiografico nella storia raccontata in questo film, certo è che Cotroneo è nato negli anni ’60 a Napoli, esattamente come Peppino, il protagonista del film (magnificamente interpretato da Luigi Catani), e dunque conosce molto bene il contesto che racconta. Non è nuova per Cotroneo neppure l’idea di raccontare la storia di un personaggio che - a suo modo - è diverso dal contesto che lo circonda e che dovrà trovare la forza e la consapevolezza di sé per andare per la sua strada.
In questo caso si tratta di Peppino, nato nel 1964 a Napoli in una famiglia che non si fa fatica a definire disfunzionale. Della vita di Peppino ci viene raccontato il 1973, anno in cui lui, capellone, grossi occhiali da miope, preso in giro dai suoi compagni di classe, si trova a fare i conti con un momento familiare difficile. Sua madre Rosaria (una dolente Valeria Golino) scopre che suo marito (uno straordinario Luca Zingaretti) la tradisce con la figlia della tabaccaia nella Seicento familiare che usa per andare a lavorare nel negozio di macchine da cucire, e cade in depressione, trascorrendo intere giornate a letto. Gli equilibri familiari già piuttosto precari vengono ulteriormente messi in discussione.
http://www.blogger.com/img/blank.gif
E così Peppino trascorre di volta in volta le sue giornate con suo padre che un po’ goffamente tenta di svolgere un ruolo rispetto al quale non si sente del tutto all’altezza, con i suoi nonni, un po’ duri e autoritari e, soprattutto, molto presenti in questa famiglia allargata, con i suoi due zii “scapoli” (Titina, interpretata da Cristiana Capotondi, e Salvatore, molto ben rappresentato da Libero De Rienzo) che trascorrono le giornate tra discoteche, collettivi femministi, musica, festivi dalle fantasie e dai colori optical, esperienze sessuali e acidi, e infine con Assunta (la collega di lavoro di Rosaria, interpretata da Monica Nappo) che viene da una famiglia poverissima e che è ossessionata dalla ricerca di un fidanzato.
Su tutto volteggia (e il termine non è casuale) il cugino Gennaro (Vincenzo Nemolato), un ragazzo ritardato che va in giro vestito – ma con i colori un po’ slavati - da Superman (ed è convinto che il suo punto debole - come per il supereroe - sia la kryptonite). Gennaro/Superman muore sotto un autobus, ma Peppino lo adotta come guida spirituale nei suoi sogni ad occhi aperti e con lui prenderà il volo dalla sua infanzia.
Definirei quella di Cotroneo una “commedia malinconica”, in cui si ride e si sorride, ma in fondo al cuore resta una certa qual tristezza mista a nostalgia. La nostalgia di un mondo passato, riletto in maniera creativa più che documentaristica, un mondo in fondo più essenziale di quello di oggi, con codici più facilmente leggibili; la tristezza di constatare che alcune dinamiche umane sono senza tempo e di condividere la sensazione di spaesamento di Peppino in questo mondo di adulti incerti, insoddisfatti, infantili a loro volta.
Cotroneo dimostra di essere bravo a tenere insieme tutti i pezzi di questa storia composita mantenendo un apprezzabile senso della misura, salvo nella invadente voce fuoricampo iniziale (che – come dice Mereghetti – per fortuna, ma anche incongruamente scompare dopo i primi minuti). Va detto però che la parte più riuscita del film è forse proprio quella eccessiva e un po’ sopra le righe, rappresentata dal mondo degli zii Titina e Salvatore, mentre lì dove la rappresentazione si fa più contenuta e – per quanto possibile – più realistica risulta insoddisfacente perché ci si aspetterebbe una maggiore profondità di analisi e, invece, anche su questo fronte si rimane in qualche modo sulla superficie.
In due parole, un debutto dietro la macchina da presa gradevole e cinematograficamente corretto quello di Cotroneo. Non un capolavoro, ma questo dovrebbe lasciargli aperte più possibilità per le sue prossime prove.
E poi il fidanzato di Assunta mi ricordava troppo mio padre nelle fotografie da giovane!
Voto: 3/5
Con La kryptonite nella borsa Cotroneo fa il salto dalla storia scritta a quella raccontata per immagini e si cimenta – con ottimi risultati – dietro la macchina da presa, sostenuto da una sceneggiatura scritta da lui stesso e da un gruppo di lavoro di grande qualità e mestiere: dal cast formato da attori quali Luca Zingaretti, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo, a un direttore della fotografia del calibro di Luca Bigazzi (che ha dato poco firmato anche il film di Sorrentino) a una colonna sonora sempre accattivante come è quella degli anni ’70.
Non so se ci sia qualcosa di autobiografico nella storia raccontata in questo film, certo è che Cotroneo è nato negli anni ’60 a Napoli, esattamente come Peppino, il protagonista del film (magnificamente interpretato da Luigi Catani), e dunque conosce molto bene il contesto che racconta. Non è nuova per Cotroneo neppure l’idea di raccontare la storia di un personaggio che - a suo modo - è diverso dal contesto che lo circonda e che dovrà trovare la forza e la consapevolezza di sé per andare per la sua strada.
In questo caso si tratta di Peppino, nato nel 1964 a Napoli in una famiglia che non si fa fatica a definire disfunzionale. Della vita di Peppino ci viene raccontato il 1973, anno in cui lui, capellone, grossi occhiali da miope, preso in giro dai suoi compagni di classe, si trova a fare i conti con un momento familiare difficile. Sua madre Rosaria (una dolente Valeria Golino) scopre che suo marito (uno straordinario Luca Zingaretti) la tradisce con la figlia della tabaccaia nella Seicento familiare che usa per andare a lavorare nel negozio di macchine da cucire, e cade in depressione, trascorrendo intere giornate a letto. Gli equilibri familiari già piuttosto precari vengono ulteriormente messi in discussione.
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E così Peppino trascorre di volta in volta le sue giornate con suo padre che un po’ goffamente tenta di svolgere un ruolo rispetto al quale non si sente del tutto all’altezza, con i suoi nonni, un po’ duri e autoritari e, soprattutto, molto presenti in questa famiglia allargata, con i suoi due zii “scapoli” (Titina, interpretata da Cristiana Capotondi, e Salvatore, molto ben rappresentato da Libero De Rienzo) che trascorrono le giornate tra discoteche, collettivi femministi, musica, festivi dalle fantasie e dai colori optical, esperienze sessuali e acidi, e infine con Assunta (la collega di lavoro di Rosaria, interpretata da Monica Nappo) che viene da una famiglia poverissima e che è ossessionata dalla ricerca di un fidanzato.
Su tutto volteggia (e il termine non è casuale) il cugino Gennaro (Vincenzo Nemolato), un ragazzo ritardato che va in giro vestito – ma con i colori un po’ slavati - da Superman (ed è convinto che il suo punto debole - come per il supereroe - sia la kryptonite). Gennaro/Superman muore sotto un autobus, ma Peppino lo adotta come guida spirituale nei suoi sogni ad occhi aperti e con lui prenderà il volo dalla sua infanzia.
Definirei quella di Cotroneo una “commedia malinconica”, in cui si ride e si sorride, ma in fondo al cuore resta una certa qual tristezza mista a nostalgia. La nostalgia di un mondo passato, riletto in maniera creativa più che documentaristica, un mondo in fondo più essenziale di quello di oggi, con codici più facilmente leggibili; la tristezza di constatare che alcune dinamiche umane sono senza tempo e di condividere la sensazione di spaesamento di Peppino in questo mondo di adulti incerti, insoddisfatti, infantili a loro volta.
Cotroneo dimostra di essere bravo a tenere insieme tutti i pezzi di questa storia composita mantenendo un apprezzabile senso della misura, salvo nella invadente voce fuoricampo iniziale (che – come dice Mereghetti – per fortuna, ma anche incongruamente scompare dopo i primi minuti). Va detto però che la parte più riuscita del film è forse proprio quella eccessiva e un po’ sopra le righe, rappresentata dal mondo degli zii Titina e Salvatore, mentre lì dove la rappresentazione si fa più contenuta e – per quanto possibile – più realistica risulta insoddisfacente perché ci si aspetterebbe una maggiore profondità di analisi e, invece, anche su questo fronte si rimane in qualche modo sulla superficie.
In due parole, un debutto dietro la macchina da presa gradevole e cinematograficamente corretto quello di Cotroneo. Non un capolavoro, ma questo dovrebbe lasciargli aperte più possibilità per le sue prossime prove.
E poi il fidanzato di Assunta mi ricordava troppo mio padre nelle fotografie da giovane!
Voto: 3/5
giovedì 3 novembre 2011
Circumstance
I festival del cinema sono ormai diventati una passerella per star coperte di lustrini, per giornalisti in cerca di notorietà e per spettatori ossessionati dall’ “Io c’ero”. Eppure, possono essere una bella occasione sia per vedere film che difficilmente raggiungeranno le nostre sale cinematografiche, invase ormai solo di film da botteghino, sia per incontrare registi e attori (quelli minori di cui nessuno si accorge quando passano sul tappeto rosso) e per ascoltare le loro voci e il loro punto di vista sul film.
All’interno di questo panorama caratterizzato da molte luci, ma anche da parecchie ombre, il Festival internazionale del cinema di Roma mantiene una certa atmosfera un po’ naif, perché - pur strizzando l’occhio ai grandi festival come Cannes e Venezia e rivestendo di rosso la location dell’Auditorium – mantiene un’aria elegante e casalinga al tempo stesso, che lo rende – non so ancora per quanto – molto piacevole.
E così lunedì sera - ma solo dopo aver comprato su Internet i biglietti del film per evitare lunghe file – andiamo a vedere questo film di una giovane regista di origine iraniana che vive a New York, Maryam Keshavarz, dal titolo Circumstance.
Questo film - che per noi italiani risulta praticamente sconosciuto - ha vinto in realtà il premio del pubblico al Sundance Film Festival, quello di Robert Redford. E così io e C. arriviamo in sala piene di aspettative. Superato qualche problemino tecnico che ci costringe a rivedere i primi 10 minuti del film, siamo finalmente catturati nel mondo di Atafeh (nella fresca interpretazione di Nikohl Boosheri) e Shireen (la bellissima Sarah Kazemy), due liceali che vivono a Teheran, la prima proveniente da una famiglia ricca e influente, la seconda i cui genitori – due intellettuali – sono stati allontanati (uccisi?) dal regime in quanto considerati oppositori.
Tra le due ragazze si inserisce il fratello di Atafeh, Mehran (Reza Sixo Safai), tornato in famiglia dopo un passato di droga, catturato dalla prospettiva di potere che la scelta di diventare un musulmano ortodosso gli garantisce in una società come quella iraniana, affascinato dalla possibilità di esercitare un vero e proprio controllo su tutti i membri della sua famiglia.
Il legame intenso tra le due ragazze, la loro adolescenziale ricerca di se stesse, la loro voglia di sperimentare tutto e di vivere con intensità finiranno inevitabilmente per attirare l’attenzione sia di Mehran che della polizia religiosa costringendole a scelte dolorose e difficili.
Il film – come si può immaginare – non è stato girato in Iran, dove sicuramente non sarà distribuito e dove probabilmente la giovane regista non sarà ben accetta per il prossimo futuro, bensì in Libano allo scopo di garantire comunque veridicità al contesto. Gli stessi attori – pur essendo tutti di origine iraniana (il film è recitato quasi tutto in persiano) – sono anch’essi espressione di quella diaspora che dopo la Rivoluzione del 1979 ha portato molti iraniani fuori del loro paese.
Lo sguardo di chi conosce dall’interno una realtà che ama e che gli appartiene, ma che ha avuto la possibilità di guardare quella stessa realtà dall’esterno e da un contesto culturale diverso è evidente non solo nei contenuti, bensì anche nella forma cinematografica di questo film. Niente di paragonabile alla essenzialità narrativa e ai tempi lenti del cinema iraniano d’origine; piuttosto si respirano in questo film una vitalità, una fisicità, una tenerezza e una ricchezza emotiva che sono molto vicini alla nostra sensibilità occidentale. Il tutto però senza tradire un contesto che viene rappresentato con fedeltà documentaria e profondo rispetto e amore per le sue caratteristiche culturali, a cominciare dalla lingua e dalla musica.
Ne viene fuori l’immagine di un Iran schizofrenico, in cui dietro un’apparenza dominata dal rispetto delle regole imposte dal governo religioso (e particolarmente severe nei confronti delle donne) esiste una realtà molto più mossa e articolata, dove feste, discoteche, droghe, sessualità e cultura occidentale si sviluppano tra le maglie strette dei controlli della polizia.
Atafeh e Shireen sono due personaggi belli e vivi, che ci ricordano i tempi della nostra adolescenza (bellissima la scena in cui, di fronte alla televisione accesa su un programma musicale, fanno finta di cantare in playback Total eclipse of the heart), e però sono costrette dalle “circostanze” a scelte di compromesso, a decisioni difficili, a crescere più in fretta di quanto la loro età richiederebbe.
Circumstance è un film che strappa molti sorrisi e intenerisce il cuore, ma che al contempo stringe lo stomaco e fa montare la rabbia di fronte ad un’immotivata privazione della libertà personale e soprattutto della possibilità di essere giovani, di amare, di fare liberamente le proprie scelte.
L’applauso finale del pubblico (uno dei motivi per cui adoro andare ai festival) è immediato ma non propriamente convinto, a dimostrazione del fatto che il pubblico italiano è e rimane un po’ provinciale. L’intervista finale alla regista e agli attori (che parlano inglese o francese a seconda dei paesi in cui vivono) chiarisce bene la molteplicità di sfumature e di letture che sottendono la storia. Non dunque un film cui semplicemente affibbiare etichette convenzionali o di cui collocare i contenuti dentro categorie già note (come molti critici italiani hanno subito fatto), bensì un punto di vista inevitabilmente in bilico tra storia personale e sociale in un paese in cui il confine tra pubblico e privato è insieme enorme e sottile.
Circumstance dimostra che esiste un Iran diverso, quello di tutti coloro che hanno deciso o sono stati costretti ad abbandonare il loro paese e quello di chi - pur continuando a vivere in Iran - ne sogna un futuro diverso.
Voto: 3,5/5
All’interno di questo panorama caratterizzato da molte luci, ma anche da parecchie ombre, il Festival internazionale del cinema di Roma mantiene una certa atmosfera un po’ naif, perché - pur strizzando l’occhio ai grandi festival come Cannes e Venezia e rivestendo di rosso la location dell’Auditorium – mantiene un’aria elegante e casalinga al tempo stesso, che lo rende – non so ancora per quanto – molto piacevole.
E così lunedì sera - ma solo dopo aver comprato su Internet i biglietti del film per evitare lunghe file – andiamo a vedere questo film di una giovane regista di origine iraniana che vive a New York, Maryam Keshavarz, dal titolo Circumstance.
Questo film - che per noi italiani risulta praticamente sconosciuto - ha vinto in realtà il premio del pubblico al Sundance Film Festival, quello di Robert Redford. E così io e C. arriviamo in sala piene di aspettative. Superato qualche problemino tecnico che ci costringe a rivedere i primi 10 minuti del film, siamo finalmente catturati nel mondo di Atafeh (nella fresca interpretazione di Nikohl Boosheri) e Shireen (la bellissima Sarah Kazemy), due liceali che vivono a Teheran, la prima proveniente da una famiglia ricca e influente, la seconda i cui genitori – due intellettuali – sono stati allontanati (uccisi?) dal regime in quanto considerati oppositori.
Tra le due ragazze si inserisce il fratello di Atafeh, Mehran (Reza Sixo Safai), tornato in famiglia dopo un passato di droga, catturato dalla prospettiva di potere che la scelta di diventare un musulmano ortodosso gli garantisce in una società come quella iraniana, affascinato dalla possibilità di esercitare un vero e proprio controllo su tutti i membri della sua famiglia.
Il legame intenso tra le due ragazze, la loro adolescenziale ricerca di se stesse, la loro voglia di sperimentare tutto e di vivere con intensità finiranno inevitabilmente per attirare l’attenzione sia di Mehran che della polizia religiosa costringendole a scelte dolorose e difficili.
Il film – come si può immaginare – non è stato girato in Iran, dove sicuramente non sarà distribuito e dove probabilmente la giovane regista non sarà ben accetta per il prossimo futuro, bensì in Libano allo scopo di garantire comunque veridicità al contesto. Gli stessi attori – pur essendo tutti di origine iraniana (il film è recitato quasi tutto in persiano) – sono anch’essi espressione di quella diaspora che dopo la Rivoluzione del 1979 ha portato molti iraniani fuori del loro paese.
Lo sguardo di chi conosce dall’interno una realtà che ama e che gli appartiene, ma che ha avuto la possibilità di guardare quella stessa realtà dall’esterno e da un contesto culturale diverso è evidente non solo nei contenuti, bensì anche nella forma cinematografica di questo film. Niente di paragonabile alla essenzialità narrativa e ai tempi lenti del cinema iraniano d’origine; piuttosto si respirano in questo film una vitalità, una fisicità, una tenerezza e una ricchezza emotiva che sono molto vicini alla nostra sensibilità occidentale. Il tutto però senza tradire un contesto che viene rappresentato con fedeltà documentaria e profondo rispetto e amore per le sue caratteristiche culturali, a cominciare dalla lingua e dalla musica.
Ne viene fuori l’immagine di un Iran schizofrenico, in cui dietro un’apparenza dominata dal rispetto delle regole imposte dal governo religioso (e particolarmente severe nei confronti delle donne) esiste una realtà molto più mossa e articolata, dove feste, discoteche, droghe, sessualità e cultura occidentale si sviluppano tra le maglie strette dei controlli della polizia.
Atafeh e Shireen sono due personaggi belli e vivi, che ci ricordano i tempi della nostra adolescenza (bellissima la scena in cui, di fronte alla televisione accesa su un programma musicale, fanno finta di cantare in playback Total eclipse of the heart), e però sono costrette dalle “circostanze” a scelte di compromesso, a decisioni difficili, a crescere più in fretta di quanto la loro età richiederebbe.
Circumstance è un film che strappa molti sorrisi e intenerisce il cuore, ma che al contempo stringe lo stomaco e fa montare la rabbia di fronte ad un’immotivata privazione della libertà personale e soprattutto della possibilità di essere giovani, di amare, di fare liberamente le proprie scelte.
L’applauso finale del pubblico (uno dei motivi per cui adoro andare ai festival) è immediato ma non propriamente convinto, a dimostrazione del fatto che il pubblico italiano è e rimane un po’ provinciale. L’intervista finale alla regista e agli attori (che parlano inglese o francese a seconda dei paesi in cui vivono) chiarisce bene la molteplicità di sfumature e di letture che sottendono la storia. Non dunque un film cui semplicemente affibbiare etichette convenzionali o di cui collocare i contenuti dentro categorie già note (come molti critici italiani hanno subito fatto), bensì un punto di vista inevitabilmente in bilico tra storia personale e sociale in un paese in cui il confine tra pubblico e privato è insieme enorme e sottile.
Circumstance dimostra che esiste un Iran diverso, quello di tutti coloro che hanno deciso o sono stati costretti ad abbandonare il loro paese e quello di chi - pur continuando a vivere in Iran - ne sogna un futuro diverso.
Voto: 3,5/5
martedì 1 novembre 2011
This must be the place
Il film di Sorrentino potrebbe essere considerato uno straordinario saggio finale di una scuola di cinematografia, una vera e propria lezione di cinematografia a tutto tondo.
Perché dentro This must be the place c’è moltissima qualità e arte cinematografica, una specie di antologia delle possibilità che sono in mano a un regista che sappia utilizzarle.
A cominciare dalla straordinaria fotografia di Luca Bigazzi. Non solo per quegli sguardi infiniti e meravigliati sulla profonda America, con quel contrasto esasperato tra l’incredibile bellezza della natura e dei paesaggi e la bruttezza e lo squallore di certa presenza umana. Ma anche e soprattutto per la cura con cui ogni singola scena è stata pensata, ritratta e offerta al pubblico, sfruttando colori, luci e forme.
Per non parlare della musica, co-protagonista del film insieme a Sean Penn. La musica è onnipresente. Intanto perché il protagonista Cheyenne è una ex popstar ormai cinquantenne che oscilla tra l’annoiato e il depresso, tra il cinico e l’ingenuo, uno che in qualche modo ha avuto tutto dalla vita: l’amore di una donna forte e ironica (una notevole Frances McDormand nel ruolo di Jane), la ricchezza che gli ha permesso di comprare una villa incredibile la cui piscina non è mai stata riempita perché utilizzata per giocare partite a pelota all’ultimo sangue tra lui e sua moglie, la notorietà conservata ancora a distanza di anni.
Lo stesso titolo del film, This must be the place, è tratto da una canzone dei Talking heads che - a un certo punto del suo viaggio on the road - Cheyenne canta insieme ad un ragazzino di otto anni - un po’ obeso - che pensa che questa canzone sia degli Arcade Fire.
E poi c’è il cameo di David Byrne nel ruolo di se stesso, ancora originale e affascinante sul palco, ancora pieno di idee.
Infine, c’è una colonna sonora che non fa solo da sottofondo, ma sottolinea, accompagna, interviene, sostituisce. Una colonna sonora (per gran parte dello stesso Byrne) di grandissima qualità.
Una parola va spesa certamente anche per il montaggio, che qui non è soltanto stratagemma cinematografico per mantenere comprensibilità e ritmo a un racconto ricco di episodi e personaggi, bensì è utilizzato in maniera non convenzionale per mescolare e allontanare i segmenti narrativi collegati e distinti che compongono la storia, apparentemente un collage di storie senza relazione tra di loro, in realtà un percorso fatto di rimandi interni e di legami concettuali e narrativi. Gli inserti di montaggio che giocano su brevissime sequenze di anticipazione o posticipazione (flashback e flashforward), spingono lo spettatore in avanti o indietro creando sorpresa, smentite o conferme al processo di ricostruzione mentale che ognuno fa nella propria mente.
Non ultima va menzionata la sceneggiatura, anch’essa in qualche modo antologica. Infatti, in This must be the place i dialoghi non sono quasi mai banali, come nella realtà accade per il 90% delle nostre conversazioni, bensì comunicano un’arguzia, un’ironia, una profondità o anche solo una selezione verbale decisamente superiori alla media.
Infine, non si possono dimenticare i personaggi, a cominciare da Cheyenne cui Sean Penn regala umanità nonostante la sua caratterizzazione decisamente e costantemente sopra le righe. Ma anche Jane, la moglie, e poi Mary (Eve Hewson), la ragazza dark che Cheyenne vorrebbe far fidanzare con il cameriere del fast food, l’insegnante anziana che vive in una casa piena di bambole con i tendaggi a fiori, la giovane donna (Kerry Condon) che vive con il figlioletto obeso nel paese dove c’è la scultura del pistacchio più grande del mondo, il cacciatore di nazisti ormai assuefatto allo showbiz, l'inventore del trolley e infine il vecchio gerarca nazista che ha scelto di andare a vivere ai confini del mondo. Anche in questo caso non si può certo parlare di un’umanità banale o comune, ma di una specie di excerpta di una società umana vista da un angolo visuale inusuale.
Qual è il risultato di tutto questo? Un film cinematograficamente perfetto, in cui però la cura estrema del dettaglio e la sensazione che tutto sia studiato a tavolino in maniera quasi maniacale tolgono naturalezza e rendono lo spettatore un fruitore passivo e poco partecipe della poesia e della dinamica emotiva che pure il film prevederebbe.
Non si può certo dire che Sorrentino sia un regista di pancia (i suoi film precedenti tra cui il bellissimo Le conseguenze dell’amore avevano già messo a nudo questo approccio glaciale, ma al contempo molto interno, ai sentimenti umani); qui forse l’intellettualismo e un certo manierismo cinematografico gli prendono un po’ la mano, anche in risposta all’esame importante di fare un film con un respiro internazionale, con protagonista una grande star hollywodiana e destinato a un pubblico non solo italiano.
A questo proposito, devo dire che non riesco a spiegare diversamente alcune scelte del regista che sono obiettivamente lontane dal suo stile un po’ implicito ed involuto, in particolare il finale: personalmente avrei fatto finire il film con la sgommata del SUV sulla neve, evitando sia la dimostrazione del teorema del “romanzo di formazione di un cinquantenne” con la scena in aeroporto e l’accensione della prima sigaretta di Cheyenne, sia la scena finale di Cheyenne/Tony che torna in Irlanda dalla madre che ha perso suo figlio.
In qualche modo, anche la questione ebrea e la vendetta messa in atto nei confronti del gerarca nazista ormai novantenne mi sono sembrati più una concessione un po’ melodrammatica al pubblico americano, che un reale valore aggiunto narrativo. In fin dei conti la morte del padre di Cheyenne e la di lui ossessione per il ritrovamento del criminale sono – e forse dovevano rimanere – più un pretesto per raccontare di quest'uomo un po’ bambino – e con lui di quella generazione segnata dal boom economico e da certa superficialità anni ’80 – e del suo affrancamento da se stesso e dalle sue paure.
Insomma, Sorrentino è un grande regista e This must be the place è certamente un film da vedere (che solo un americano può definire lento), ma forse l’ansia da prestazione ha tolto un po’ di quel potenziale valore aggiunto che poteva derivare dall’incontro di due mondi culturali e cinematografici così diversi.
Ah... dimenticavo: da vedere assolutamente in lingua originale!
Voto: 3,5/5
Perché dentro This must be the place c’è moltissima qualità e arte cinematografica, una specie di antologia delle possibilità che sono in mano a un regista che sappia utilizzarle.
A cominciare dalla straordinaria fotografia di Luca Bigazzi. Non solo per quegli sguardi infiniti e meravigliati sulla profonda America, con quel contrasto esasperato tra l’incredibile bellezza della natura e dei paesaggi e la bruttezza e lo squallore di certa presenza umana. Ma anche e soprattutto per la cura con cui ogni singola scena è stata pensata, ritratta e offerta al pubblico, sfruttando colori, luci e forme.
Per non parlare della musica, co-protagonista del film insieme a Sean Penn. La musica è onnipresente. Intanto perché il protagonista Cheyenne è una ex popstar ormai cinquantenne che oscilla tra l’annoiato e il depresso, tra il cinico e l’ingenuo, uno che in qualche modo ha avuto tutto dalla vita: l’amore di una donna forte e ironica (una notevole Frances McDormand nel ruolo di Jane), la ricchezza che gli ha permesso di comprare una villa incredibile la cui piscina non è mai stata riempita perché utilizzata per giocare partite a pelota all’ultimo sangue tra lui e sua moglie, la notorietà conservata ancora a distanza di anni.
Lo stesso titolo del film, This must be the place, è tratto da una canzone dei Talking heads che - a un certo punto del suo viaggio on the road - Cheyenne canta insieme ad un ragazzino di otto anni - un po’ obeso - che pensa che questa canzone sia degli Arcade Fire.
E poi c’è il cameo di David Byrne nel ruolo di se stesso, ancora originale e affascinante sul palco, ancora pieno di idee.
Infine, c’è una colonna sonora che non fa solo da sottofondo, ma sottolinea, accompagna, interviene, sostituisce. Una colonna sonora (per gran parte dello stesso Byrne) di grandissima qualità.
Una parola va spesa certamente anche per il montaggio, che qui non è soltanto stratagemma cinematografico per mantenere comprensibilità e ritmo a un racconto ricco di episodi e personaggi, bensì è utilizzato in maniera non convenzionale per mescolare e allontanare i segmenti narrativi collegati e distinti che compongono la storia, apparentemente un collage di storie senza relazione tra di loro, in realtà un percorso fatto di rimandi interni e di legami concettuali e narrativi. Gli inserti di montaggio che giocano su brevissime sequenze di anticipazione o posticipazione (flashback e flashforward), spingono lo spettatore in avanti o indietro creando sorpresa, smentite o conferme al processo di ricostruzione mentale che ognuno fa nella propria mente.
Non ultima va menzionata la sceneggiatura, anch’essa in qualche modo antologica. Infatti, in This must be the place i dialoghi non sono quasi mai banali, come nella realtà accade per il 90% delle nostre conversazioni, bensì comunicano un’arguzia, un’ironia, una profondità o anche solo una selezione verbale decisamente superiori alla media.
Infine, non si possono dimenticare i personaggi, a cominciare da Cheyenne cui Sean Penn regala umanità nonostante la sua caratterizzazione decisamente e costantemente sopra le righe. Ma anche Jane, la moglie, e poi Mary (Eve Hewson), la ragazza dark che Cheyenne vorrebbe far fidanzare con il cameriere del fast food, l’insegnante anziana che vive in una casa piena di bambole con i tendaggi a fiori, la giovane donna (Kerry Condon) che vive con il figlioletto obeso nel paese dove c’è la scultura del pistacchio più grande del mondo, il cacciatore di nazisti ormai assuefatto allo showbiz, l'inventore del trolley e infine il vecchio gerarca nazista che ha scelto di andare a vivere ai confini del mondo. Anche in questo caso non si può certo parlare di un’umanità banale o comune, ma di una specie di excerpta di una società umana vista da un angolo visuale inusuale.
Qual è il risultato di tutto questo? Un film cinematograficamente perfetto, in cui però la cura estrema del dettaglio e la sensazione che tutto sia studiato a tavolino in maniera quasi maniacale tolgono naturalezza e rendono lo spettatore un fruitore passivo e poco partecipe della poesia e della dinamica emotiva che pure il film prevederebbe.
Non si può certo dire che Sorrentino sia un regista di pancia (i suoi film precedenti tra cui il bellissimo Le conseguenze dell’amore avevano già messo a nudo questo approccio glaciale, ma al contempo molto interno, ai sentimenti umani); qui forse l’intellettualismo e un certo manierismo cinematografico gli prendono un po’ la mano, anche in risposta all’esame importante di fare un film con un respiro internazionale, con protagonista una grande star hollywodiana e destinato a un pubblico non solo italiano.
A questo proposito, devo dire che non riesco a spiegare diversamente alcune scelte del regista che sono obiettivamente lontane dal suo stile un po’ implicito ed involuto, in particolare il finale: personalmente avrei fatto finire il film con la sgommata del SUV sulla neve, evitando sia la dimostrazione del teorema del “romanzo di formazione di un cinquantenne” con la scena in aeroporto e l’accensione della prima sigaretta di Cheyenne, sia la scena finale di Cheyenne/Tony che torna in Irlanda dalla madre che ha perso suo figlio.
In qualche modo, anche la questione ebrea e la vendetta messa in atto nei confronti del gerarca nazista ormai novantenne mi sono sembrati più una concessione un po’ melodrammatica al pubblico americano, che un reale valore aggiunto narrativo. In fin dei conti la morte del padre di Cheyenne e la di lui ossessione per il ritrovamento del criminale sono – e forse dovevano rimanere – più un pretesto per raccontare di quest'uomo un po’ bambino – e con lui di quella generazione segnata dal boom economico e da certa superficialità anni ’80 – e del suo affrancamento da se stesso e dalle sue paure.
Insomma, Sorrentino è un grande regista e This must be the place è certamente un film da vedere (che solo un americano può definire lento), ma forse l’ansia da prestazione ha tolto un po’ di quel potenziale valore aggiunto che poteva derivare dall’incontro di due mondi culturali e cinematografici così diversi.
Ah... dimenticavo: da vedere assolutamente in lingua originale!
Voto: 3,5/5