Tratto da una pièce teatrale di Reinaldo Podov dal titolo Cuba and his teddy bear (portato in scena in America con protagonisti Robert De Niro e Ralph Macchio nei due ruoli principali), Roman e il suo cucciolo ne è la rilettura per il pubblico italiano ad opera di Edoardo Erba, per la regia di Alessandro Gassmann che ne è anche il protagonista.
E così, se l'originale si svolgeva negli Stati Uniti nell'ambiente dei latinos, la versione italiana sceglie come luogo una periferia romana e come protagonista Roman, un rumeno arrivato da bambino in Italia insieme a sua madre in fuga dal regime di Ceausescu. Un emarginato rozzo e semi-ignorante, che parla un italiano-romanesco a tratti incomprensibile e vive di spaccio di droga, un nevrotico aggressivo che ha un'energia incontenibile che scarica sul piccolo mondo che lo circonda. Innanzitutto il suo cucciolo (Giovanni Anzaldo), suo figlio Toni diciassettenne nato in Italia, un ragazzo sensibile per il quale egli vorrebbe un futuro all'università e lontano dalla droga, poi il suo migliore amico Geko (un altro spacciatore che ha conosciuto in galera, interpretato dal bravo Manrico Giammarota, vero protagonista della sottotrama umoristica del dramma), l'amico rumeno Dragas (Matteo Taranto) che controlla un giro di prostituzione e fa prostituire anche la sua fidanzata rumena (Natalia Lungu).
Sullo sfondo una metropoli anonima e grigia, in cui si distinguono solo i fari quasi ininterrotti delle macchine. Nella casa in cui si svolge l'intero dramma un televisore quasi sempre acceso, una madonna nera, il divano della nonna ancora con la plastica, la stanzetta dove cucciolo si rifugia a scrivere e a giocare a fare l'intellettuale, dove prova a mettere una distanza tra sé e il mondo in cui vive e da cui non riesce ad affrancarsi. Un mondo sordido, squallido, ma al contempo non privo di tenerezza e affetto. Un mondo che rispecchia una cultura cui sente di non appartenere, senza per questo riuscire a sentirsi pienamente parte del mondo in cui è nato ed è cresciuto.
Straniero senza esserlo. Straziato e fatalmente attirato dall'eroina.
Di tanto in tanto di questi personaggi vediamo anche i ricordi, i pensieri, i sogni tradotti in immagini e proiettati sul grande telo semitrasparente calato davanti alla scena. A volte su quel telo vengono amplificati e reinterpretati momenti di grande tensione della storia.
La musica pure gioca un ruolo centrale, nel sottolineare appartenenze culturali differenti e commentare passaggi cruciali (per finire con una canzone di Neffa).
Su tutto spicca questo rapporto irrisolto tra padre e figlio. Da una parte un omone, pieno di forza e di carisma, ma fin troppo semplice ed elementare nella sua emotività, quasi infantile nelle sue reazioni. Fragile e ingenuo da molti punti di vista. Dall'altro un figlio intelligente e sensibile. Venuto su bene, capace di passare indenne in mezzo alle brutture e al degrado, di stare in bilico su quel filo sottile tra identità e integrazione. In realtà fragilissimo e impaurito da una figura paterna in fondo sovrabbondante.
Ne viene fuori un ritratto iperrealistico, che riesce a non scadere nel macchiettistico, negli ideologismi e negli stereotipi. Che fa paura e tenerezza. Esattamente come Roman.
Assistiamo ad una rappresentazione teatrale che gioca certamente con il linguaggio cinematografico, non solo per la presenza di piccole sequenze proiettate, ma soprattutto per il linguaggio, il ritmo, la recitazione, la storia. A qualcuno - amante di un teatro più classico e tradizionale - potrà non piacere.
A me è arrivato. Dritto al cuore. Commuovendomi, facendomi ridere e sorridere, tenendomi incollata alla sedia senza un minuto di noia per circa due ore e mezza.
Alessandro Gassmann è una forza della natura e il cast gli sta dietro alla grande.
Bello vederlo ringraziare il pubblico e soprattutto il fatto di aver potuto recitare questo spettacolo al Quirino, il teatro che porta il nome di suo padre.
Chissà, forse Alessandro si è sentito anche lui un po' cucciolo al cospetto di cotanto padre quando aveva diciassette anni!
Voto: 4,5/5
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