Il cinema di Nanni Moretti esercita su di me un irresistibile fascino e attrazione, tanto che nella pausa tra un film e l'altro rimuovo completamente i motivi per cui io e i suoi film non riusciamo quasi mai a stare sulla stessa lunghezza d'onda. Immancabilmente tutto mi torna alla mente quando sono in sala.
Chiariamoci. Il film mi è piaciuto, ironico e melanconico al punto giusto. Il tutto in un impianto registicamente e visivamente godibilissimo.
Il fatto è che la mia indole è esattamente a metà strada rispetto ai due poli intorno ai quali si sviluppa la "poetica" di Nanni, ossia il metafisico e l'iperrealistico. E così non mi sento del tutto a mio agio né di fronte a Nanni che gira con la sua Vespa in una Roma oniricamente vuota in Caro diario, né con l'immagine ravvicinata della bara saldata per sempre in La stanza del figlio.
Nel caso di Habemus papam, l'inizio è promettentemente realistico (la morte del papa, con immagini di repertorio, e i cardinali che si riuniscono in conclave per l'elezione del nuovo pontefice), ma dal momento in cui il prescelto seduto sulla sedia in attesa di offrirsi per la prima volta ai fedeli scoppia in un pianto disperato, eccoci di nuovo - quasi privi di punti di riferimento - di fronte al cinema di Moretti.
Michel Piccoli è straordinario nel ruolo del pontefice in crisi di fronte al peso e alla responsabilità del ruolo che gli è stato affidato e riesce a trasmettere un senso di spiazzante umanità che mai ci immagineremmo associata al capo della Chiesa cattolica. A questi fa da contraltare il dottor Brezzi (lo stesso Moretti), lo psicanalista chiamato inizialmente a trovare una soluzione alla depressione del neoeletto, poi tenuto in Vaticano in attesa che la crisi si risolva. Un non credente, narcisisticamente disadattato, che porterà un po' del suo cinico-ironico disincanto in quella fase di sospensione di regole e formalità che questa situazione inusitata per la Chiesa determinerà.
La cifra morettiana appare evidente nell'inserire qua e là elementi di non-senso mescolate alla ricerca di un - forse inesistente - senso profondo, domande aperte e situazioni irrisolte fatte apposta per lasciare lo spettatore con un senso di minorità e incompiutezza, banalità del quotidiano e sospensione onirica. Dimostrando in fondo che il dramma del papa è il dramma di tutti noi, è il senso della nostra fragilità e la consapevolezza del non avere nessuna consolazione ai nostri desideri, e che questo mondo fatto di riti e cerimonie millenarie è in realtà altrettanto semplice e umano quanto quello che sta fuori di quelle mura.
Immanenza contro trascendenza. Senza giudizi e pregiudizi. Senza contrapposizioni frontali. Tutti in qualche modo abbandonati a noi stessi (quel "deficit di accudimento" di cui parla la psicanalista Margherita Buy). Tutti alla ricerca di un senso, di una guida, della nostra felicità.
Non un film anticlericale, solo una riflessione/non riflessione sulla nostra - universale - umanità.
Voto: 3,5/5
lunedì 25 aprile 2011
venerdì 22 aprile 2011
Rio
Blu è un pappagallo macao brasiliano finito da piccolo nella rete di un bracconiere e destinato al mercato nordamericano. Caduto dal camioncino del suo rivenditore, se ne prenderà cura Linda, una bambina del Minnesota che ne farà un vero e proprio pappagallo domestico, amato e coccolato ma incapace di volare.
Fino a quando bussa alla porta Tullio, un ragazzotto un po' imbranato che in realtà è un ornitologo brasiliano, il quale annuncia a Linda, ormai adulta, che Blu è l'ultimo esemplare maschio della specie e deve essere portato in Brasile per farlo accoppiare con Gioiel, una femmina della stessa specie, e garantire così la sopravvivenza futura dei pappagalli macao.
Si parte così alla volta di Rio de Janeiro, dove incontreremo una scombinata band di malviventi che vuole appropriarsi della coppia di pappagalli per rivederli a caro prezzo e arricchirsi, un meninho de rua che vive nella bidonville sulla collina di Rio, un pappagallo bianco incattivito dalla vita e dall'invidia, e una corte di uccelli esotici e altri animali che ci accompagneranno in questa avventura.
Il tutto sullo sfondo di una città che ci appare meravigliosa incastonata tra colline verdissime (su cui svetta la grande statua del Cristo Redentore ad abbracciare la città), raccolta intorno alla sua baia, morbidamente adagiata sul mare, con i suoi tram che si inerpicano per le strette strade da cui, di tanto in tanto, si intravedono meravigliosi scorci sulla città, con la sua funivia che unisce la parte alta con quella a livello del mare.
Città di grandi contraddizioni, ma dove tutto si tiene insieme nello spirito del Carnevale, dove l'allegria e la giocosità sono parte integrante della natura e della gente.
Ne viene fuori uno strepitoso megaspot pubblicitario per Rio, visto che è praticamente impossibile uscire dalla sala senza una gran voglia di prenotare subito un biglietto aereo per questa destinazione.
Nel frattempo - come potete immaginare - tutto è bene quel che finisce bene per Blu, Gioiel Linda e Tullio. Il nostro Blu avrà ritrovato dentro di sé i suoi istinti primordiali, riconosciuto le sue origini e riscoperto la sua capacità di volare, ma avrà anche insegnato ai suoi amici che non tutti gli umani sono cattivi e non tutte le loro abitudini sono deprecabili.
Meno intenso e sofisticato rispetto ad altri cartoni recenti, come Up!, Cattivissimo me, Wall-e, L'era glaciale, anche meno divertente sul piano intellettuale, ma certe volte lasciarsi andare alla semplicità di una storia, all'immediatezza di una risata, al ritmo di una canzoncina, alla magia dei colori fa certamente bene al corpo e soprattutto all'anima.
Ehi, quando si parte per Rio? ;-)
Voto: 3/5
Fino a quando bussa alla porta Tullio, un ragazzotto un po' imbranato che in realtà è un ornitologo brasiliano, il quale annuncia a Linda, ormai adulta, che Blu è l'ultimo esemplare maschio della specie e deve essere portato in Brasile per farlo accoppiare con Gioiel, una femmina della stessa specie, e garantire così la sopravvivenza futura dei pappagalli macao.
Si parte così alla volta di Rio de Janeiro, dove incontreremo una scombinata band di malviventi che vuole appropriarsi della coppia di pappagalli per rivederli a caro prezzo e arricchirsi, un meninho de rua che vive nella bidonville sulla collina di Rio, un pappagallo bianco incattivito dalla vita e dall'invidia, e una corte di uccelli esotici e altri animali che ci accompagneranno in questa avventura.
Il tutto sullo sfondo di una città che ci appare meravigliosa incastonata tra colline verdissime (su cui svetta la grande statua del Cristo Redentore ad abbracciare la città), raccolta intorno alla sua baia, morbidamente adagiata sul mare, con i suoi tram che si inerpicano per le strette strade da cui, di tanto in tanto, si intravedono meravigliosi scorci sulla città, con la sua funivia che unisce la parte alta con quella a livello del mare.
Città di grandi contraddizioni, ma dove tutto si tiene insieme nello spirito del Carnevale, dove l'allegria e la giocosità sono parte integrante della natura e della gente.
Ne viene fuori uno strepitoso megaspot pubblicitario per Rio, visto che è praticamente impossibile uscire dalla sala senza una gran voglia di prenotare subito un biglietto aereo per questa destinazione.
Nel frattempo - come potete immaginare - tutto è bene quel che finisce bene per Blu, Gioiel Linda e Tullio. Il nostro Blu avrà ritrovato dentro di sé i suoi istinti primordiali, riconosciuto le sue origini e riscoperto la sua capacità di volare, ma avrà anche insegnato ai suoi amici che non tutti gli umani sono cattivi e non tutte le loro abitudini sono deprecabili.
Meno intenso e sofisticato rispetto ad altri cartoni recenti, come Up!, Cattivissimo me, Wall-e, L'era glaciale, anche meno divertente sul piano intellettuale, ma certe volte lasciarsi andare alla semplicità di una storia, all'immediatezza di una risata, al ritmo di una canzoncina, alla magia dei colori fa certamente bene al corpo e soprattutto all'anima.
Ehi, quando si parte per Rio? ;-)
Voto: 3/5
martedì 19 aprile 2011
Roman e il suo cucciolo
Tratto da una pièce teatrale di Reinaldo Podov dal titolo Cuba and his teddy bear (portato in scena in America con protagonisti Robert De Niro e Ralph Macchio nei due ruoli principali), Roman e il suo cucciolo ne è la rilettura per il pubblico italiano ad opera di Edoardo Erba, per la regia di Alessandro Gassmann che ne è anche il protagonista.
E così, se l'originale si svolgeva negli Stati Uniti nell'ambiente dei latinos, la versione italiana sceglie come luogo una periferia romana e come protagonista Roman, un rumeno arrivato da bambino in Italia insieme a sua madre in fuga dal regime di Ceausescu. Un emarginato rozzo e semi-ignorante, che parla un italiano-romanesco a tratti incomprensibile e vive di spaccio di droga, un nevrotico aggressivo che ha un'energia incontenibile che scarica sul piccolo mondo che lo circonda. Innanzitutto il suo cucciolo (Giovanni Anzaldo), suo figlio Toni diciassettenne nato in Italia, un ragazzo sensibile per il quale egli vorrebbe un futuro all'università e lontano dalla droga, poi il suo migliore amico Geko (un altro spacciatore che ha conosciuto in galera, interpretato dal bravo Manrico Giammarota, vero protagonista della sottotrama umoristica del dramma), l'amico rumeno Dragas (Matteo Taranto) che controlla un giro di prostituzione e fa prostituire anche la sua fidanzata rumena (Natalia Lungu).
Sullo sfondo una metropoli anonima e grigia, in cui si distinguono solo i fari quasi ininterrotti delle macchine. Nella casa in cui si svolge l'intero dramma un televisore quasi sempre acceso, una madonna nera, il divano della nonna ancora con la plastica, la stanzetta dove cucciolo si rifugia a scrivere e a giocare a fare l'intellettuale, dove prova a mettere una distanza tra sé e il mondo in cui vive e da cui non riesce ad affrancarsi. Un mondo sordido, squallido, ma al contempo non privo di tenerezza e affetto. Un mondo che rispecchia una cultura cui sente di non appartenere, senza per questo riuscire a sentirsi pienamente parte del mondo in cui è nato ed è cresciuto.
Straniero senza esserlo. Straziato e fatalmente attirato dall'eroina.
Di tanto in tanto di questi personaggi vediamo anche i ricordi, i pensieri, i sogni tradotti in immagini e proiettati sul grande telo semitrasparente calato davanti alla scena. A volte su quel telo vengono amplificati e reinterpretati momenti di grande tensione della storia.
La musica pure gioca un ruolo centrale, nel sottolineare appartenenze culturali differenti e commentare passaggi cruciali (per finire con una canzone di Neffa).
Su tutto spicca questo rapporto irrisolto tra padre e figlio. Da una parte un omone, pieno di forza e di carisma, ma fin troppo semplice ed elementare nella sua emotività, quasi infantile nelle sue reazioni. Fragile e ingenuo da molti punti di vista. Dall'altro un figlio intelligente e sensibile. Venuto su bene, capace di passare indenne in mezzo alle brutture e al degrado, di stare in bilico su quel filo sottile tra identità e integrazione. In realtà fragilissimo e impaurito da una figura paterna in fondo sovrabbondante.
Ne viene fuori un ritratto iperrealistico, che riesce a non scadere nel macchiettistico, negli ideologismi e negli stereotipi. Che fa paura e tenerezza. Esattamente come Roman.
Assistiamo ad una rappresentazione teatrale che gioca certamente con il linguaggio cinematografico, non solo per la presenza di piccole sequenze proiettate, ma soprattutto per il linguaggio, il ritmo, la recitazione, la storia. A qualcuno - amante di un teatro più classico e tradizionale - potrà non piacere.
A me è arrivato. Dritto al cuore. Commuovendomi, facendomi ridere e sorridere, tenendomi incollata alla sedia senza un minuto di noia per circa due ore e mezza.
Alessandro Gassmann è una forza della natura e il cast gli sta dietro alla grande.
Bello vederlo ringraziare il pubblico e soprattutto il fatto di aver potuto recitare questo spettacolo al Quirino, il teatro che porta il nome di suo padre.
Chissà, forse Alessandro si è sentito anche lui un po' cucciolo al cospetto di cotanto padre quando aveva diciassette anni!
Voto: 4,5/5
E così, se l'originale si svolgeva negli Stati Uniti nell'ambiente dei latinos, la versione italiana sceglie come luogo una periferia romana e come protagonista Roman, un rumeno arrivato da bambino in Italia insieme a sua madre in fuga dal regime di Ceausescu. Un emarginato rozzo e semi-ignorante, che parla un italiano-romanesco a tratti incomprensibile e vive di spaccio di droga, un nevrotico aggressivo che ha un'energia incontenibile che scarica sul piccolo mondo che lo circonda. Innanzitutto il suo cucciolo (Giovanni Anzaldo), suo figlio Toni diciassettenne nato in Italia, un ragazzo sensibile per il quale egli vorrebbe un futuro all'università e lontano dalla droga, poi il suo migliore amico Geko (un altro spacciatore che ha conosciuto in galera, interpretato dal bravo Manrico Giammarota, vero protagonista della sottotrama umoristica del dramma), l'amico rumeno Dragas (Matteo Taranto) che controlla un giro di prostituzione e fa prostituire anche la sua fidanzata rumena (Natalia Lungu).
Sullo sfondo una metropoli anonima e grigia, in cui si distinguono solo i fari quasi ininterrotti delle macchine. Nella casa in cui si svolge l'intero dramma un televisore quasi sempre acceso, una madonna nera, il divano della nonna ancora con la plastica, la stanzetta dove cucciolo si rifugia a scrivere e a giocare a fare l'intellettuale, dove prova a mettere una distanza tra sé e il mondo in cui vive e da cui non riesce ad affrancarsi. Un mondo sordido, squallido, ma al contempo non privo di tenerezza e affetto. Un mondo che rispecchia una cultura cui sente di non appartenere, senza per questo riuscire a sentirsi pienamente parte del mondo in cui è nato ed è cresciuto.
Straniero senza esserlo. Straziato e fatalmente attirato dall'eroina.
Di tanto in tanto di questi personaggi vediamo anche i ricordi, i pensieri, i sogni tradotti in immagini e proiettati sul grande telo semitrasparente calato davanti alla scena. A volte su quel telo vengono amplificati e reinterpretati momenti di grande tensione della storia.
La musica pure gioca un ruolo centrale, nel sottolineare appartenenze culturali differenti e commentare passaggi cruciali (per finire con una canzone di Neffa).
Su tutto spicca questo rapporto irrisolto tra padre e figlio. Da una parte un omone, pieno di forza e di carisma, ma fin troppo semplice ed elementare nella sua emotività, quasi infantile nelle sue reazioni. Fragile e ingenuo da molti punti di vista. Dall'altro un figlio intelligente e sensibile. Venuto su bene, capace di passare indenne in mezzo alle brutture e al degrado, di stare in bilico su quel filo sottile tra identità e integrazione. In realtà fragilissimo e impaurito da una figura paterna in fondo sovrabbondante.
Ne viene fuori un ritratto iperrealistico, che riesce a non scadere nel macchiettistico, negli ideologismi e negli stereotipi. Che fa paura e tenerezza. Esattamente come Roman.
Assistiamo ad una rappresentazione teatrale che gioca certamente con il linguaggio cinematografico, non solo per la presenza di piccole sequenze proiettate, ma soprattutto per il linguaggio, il ritmo, la recitazione, la storia. A qualcuno - amante di un teatro più classico e tradizionale - potrà non piacere.
A me è arrivato. Dritto al cuore. Commuovendomi, facendomi ridere e sorridere, tenendomi incollata alla sedia senza un minuto di noia per circa due ore e mezza.
Alessandro Gassmann è una forza della natura e il cast gli sta dietro alla grande.
Bello vederlo ringraziare il pubblico e soprattutto il fatto di aver potuto recitare questo spettacolo al Quirino, il teatro che porta il nome di suo padre.
Chissà, forse Alessandro si è sentito anche lui un po' cucciolo al cospetto di cotanto padre quando aveva diciassette anni!
Voto: 4,5/5
lunedì 18 aprile 2011
Questa Londra così radical-chic!
Dopo non moltissimi mesi dalla mia ultima puntata londinese sono tornata nella capitale britannica per un breve, ma intenso weekend di sosta lungo il tragitto verso Aberystwyth (Galles), sede dell’Università presso cui sto facendo un Master in Management of Library and Information Services a distanza. Seconda e ultima study school e ghiotta occasione per respirare la primaverile aria londinese.
Questa volta, non avendo mete lavorative particolari, abbiamo scelto una collocazione centrale, a due passi da St Paul Cathedral, nel cuore della City. L’albergo è infatti pensato appositamente per gli uomini d’affari di passaggio a Londra, quasi interamente self-service, con moltissime camere infilate in lunghi corridoi, wireless gratuito disponibile in camera, angolo lettura e relax e un pub/brasserie collegato dove viene servita la colazione e ci si può fermare a bere una birra o a mangiare un boccone praticamente a qualunque ora.
Di venerdì pomeriggio uomini e donne in carriera stanno uscendo dagli uffici e si affollano davanti ad alcuni pub a bere la loro birra di inizio weekend. Prima cosa che noto (e che si confermerà nei giorni successivi, persino in Galles) è che il vino sta diventando molto popolare nel Regno Unito e soprattutto le donne sempre più spesso rinunciano alla classica birra (che gonfia e fa ingrassare!) per un bel bicchiere di vino, di solito bianco.
Per l’aperitivo torniamo a Broadway Market (che ci era piaciuto tanto durante l’ultima visita) e, dopo una passeggiata nel vicino London Fields Park ad osservare genitori e figli che giocano insieme, giovani che si allenano con le loro bici acrobatiche e distese di ragazzi e ragazze che chiacchierano tutti seduti nello spazio del parco dove c’è ancora il sole, è il momento della birra con S.
In questo nuovo assaggio della rinascita dell’East End londinese mi colpiscono non solo le biciclette essenziali che già avevo notato l’altra volta (senza parafanghi, niente freni, niente copricatena ecc.) e la quantità di negozi di prodotti biologici, ma anche l’abbigliamento di questi giovani, con i loro immancabili cappelli radical-chic, le espadrillas (ve le ricordate?) ai piedi, calze e leggings portati senza gonne e vestiti a coprire il sedere, colori sgargianti e accessori vistosi indossati con naturalezza.
Penso che questa zona rappresenti una Londra ricercatamente alternativa, contrapposta a quella tradizionalmente chic e a quella tradizionalmente popolare. E invece mi sbaglio, perché nei giorni a seguire mi accorgo che questa componente radical-chic, associata ad un’impronta culturale che potrei definire “no-global”, è diventata una caratteristica diffusamente londinese.
Così, dovunque siate e voltiate lo sguardo, vi si parerà davanti un negozio che vi propone cibo organic (biologico), local, healthy (che non danneggia la salute, anzi fa bene!) ed environmentally friendly (ecologico), ovvero un negozio che celebra cibo, mode e cultura di altri paesi, o ancora una piccola boutique di design o di abbigliamento di tendenza. Evidentemente, i disastri ecologici sempre più frequenti, i rischi sempre più alti per la salute, i segni profondi della crisi del capitalismo hanno prodotto una - almeno apparente - nuova sensibilità rispetto alla società e all’ambiente.
Con un’unica pecca, ossia che nemmeno la passione per il local e l’organic può sfuggire alla produzione su scala industriale e ai processi di massificazione. Dunque, bello vedere un uso estensivo del riciclabile e del fair trade , ma se vi guardate intorno il processo di replica all’infinito ha proporzioni incredibili.
Il bello di Londra è però la capacità di conservare la varietà e di continuare a rappresentare molte anime. Così, dopo l’aperitivo eccoci a Brick lane, Banglatown, nonché covo di comunisti nostalgici e di locali di ogni genere. Finiremo prima a un meeting di Pathfinder, una casa editrice che continua a sostenere e diffondere il mito della rivoluzione comunista, poi in un take away indiano a mangiare pakora e polpette, infine in un pub svedese con una bella terrazza in legno, dove purtroppo non si può evitare l’odore di aringa che viene fuori a getto continuo dalla cappa della cucina.
La notte non si dorme molto, causa trasformatore dell’aria condizionata rumoroso. Per fortuna, gli inglesi sono davvero attenti ai bisogni dei clienti e quindi la mattina seguente un efficientissimo tecnico verrà a concederci l’agognata tregua dal rumore di sottofondo.
Sabato abbiamo due obiettivi principali: una mostra di fotografia in una galleria che si chiama Ambika P3 e l’Easter Chocolate Festival sulla Southbank.
La metropolitana nei weekend è imprevedibile perché gli inglesi presuppongono – giustamente – che sia più facile far sopportare i disagi di lavori di potenziamento della rete nel fine settimana piuttosto che durante i giorni lavorativi. Così, ci mettiamo un po’ ad arrivare alla nostra stazione della metropolitana e nel frattempo assistiamo a un buffo raduno di gente in bici (anche e soprattutto d’epoca) vestite in tweed secondo lo stile inglese dei signorotti di campagna della prima metà del Novecento.
La galleria Ambika P3 sta praticamente di fronte al museo delle cere (il celebre Madame Tussaud) e occupa un pezzo di garage sotterraneo che è stato volutamente mantenuto grezzo e minimalista. Luogo, mostra e gente molto londinesi radical-chic! Ci sono i lavori di quattro fotografi vincitori del Deutsche Borse Photographie Prize, la cui opera fotografica non punta certamente a una versione classica di estetica, bensì a utilizzarne alcuni canoni per stravolgerli, spiazzando lo spettatore in chiave filosofico-sociale. Ed ovviamente ad Ambika P3 non manca un bel banchetto di caffè e dolci biologici.
A questo punto prima una bella passeggiata in un fioritissimo Regent’s Park, poi verso St Christopher Place, con tappa Dim Sum (ravioli al vapore e alla griglia splendidi a vedersi, ma un po’ collosi, soprattutto quelli viola impastati col cavolo) e poi l’immancabile Selfridges con le sue buste gialle (dove C. pensa di poter comprare una giacca Diesel con 48 sterline; peccato che ha visto il cartellino sbagliato!).
A questo punto ci aspetta il festival del cioccolato sulla sponda sud del Tamigi. Macarons, panforte al cioccolato, fave di cacao, cioccolata di ogni genere e forma allietano il calare del sole. La giornata finisce in bellezza con una bella (e sana) cena tailandese da Rosa’s a Soho e una passeggiata in questo quartiere che il sabato sera si trasforma in uno dei cuori pulsanti della città. Una breve puntatina in un locale trendy, un dolcino da quello che pensiamo essere un esclusivo ristorante francese, Café Rouge, e invece è una catena presente anche negli aeroporti londinesi, e infine a nanna.
Il mattino dopo c’è solo il tempo per una full English breakfast ed eccoci in metropolitana, ciascuno nella propria direzione. Durante il mio lungo viaggio in treno verso il Galles, penso che Londra è una città interessante per valutare lo stato di salute di questa nostra ormai vecchia Europa. E così accolgo positivamente questa quasi ossessione londinese per l’ecologico, il biologico e il locale, sebbene mi auguro non si tratti solo di una moda. Osservo - piacevolmente sorpresa - una giovane mamma che raccoglie un pezzo di galletta di riso che il suo bimbo ha buttato per terra in metropolitana e, dopo averci soffiato un po’ su, lo mangia. E al contempo mi fa un po’ paura l’altrettanto pronunciata ossessione della città per la sicurezza. Telecamere ovunque, postazioni per chiamare aiuto, cartelli in metropolitana che suggeriscono di segnalare al personale della sicurezza chiunque “abbia un’aria sospetta”.
Penso che siamo una società schizofrenica, in cui le istituzioni sono un po’ avvoltolate su se stesse, mentre dal basso sembra provenire una richiesta di riappropriazione della propria libertà e del senso della comunità. Chissà se c’è qualcosa di buono da sperare.
Questa volta, non avendo mete lavorative particolari, abbiamo scelto una collocazione centrale, a due passi da St Paul Cathedral, nel cuore della City. L’albergo è infatti pensato appositamente per gli uomini d’affari di passaggio a Londra, quasi interamente self-service, con moltissime camere infilate in lunghi corridoi, wireless gratuito disponibile in camera, angolo lettura e relax e un pub/brasserie collegato dove viene servita la colazione e ci si può fermare a bere una birra o a mangiare un boccone praticamente a qualunque ora.
Di venerdì pomeriggio uomini e donne in carriera stanno uscendo dagli uffici e si affollano davanti ad alcuni pub a bere la loro birra di inizio weekend. Prima cosa che noto (e che si confermerà nei giorni successivi, persino in Galles) è che il vino sta diventando molto popolare nel Regno Unito e soprattutto le donne sempre più spesso rinunciano alla classica birra (che gonfia e fa ingrassare!) per un bel bicchiere di vino, di solito bianco.
Per l’aperitivo torniamo a Broadway Market (che ci era piaciuto tanto durante l’ultima visita) e, dopo una passeggiata nel vicino London Fields Park ad osservare genitori e figli che giocano insieme, giovani che si allenano con le loro bici acrobatiche e distese di ragazzi e ragazze che chiacchierano tutti seduti nello spazio del parco dove c’è ancora il sole, è il momento della birra con S.
In questo nuovo assaggio della rinascita dell’East End londinese mi colpiscono non solo le biciclette essenziali che già avevo notato l’altra volta (senza parafanghi, niente freni, niente copricatena ecc.) e la quantità di negozi di prodotti biologici, ma anche l’abbigliamento di questi giovani, con i loro immancabili cappelli radical-chic, le espadrillas (ve le ricordate?) ai piedi, calze e leggings portati senza gonne e vestiti a coprire il sedere, colori sgargianti e accessori vistosi indossati con naturalezza.
Penso che questa zona rappresenti una Londra ricercatamente alternativa, contrapposta a quella tradizionalmente chic e a quella tradizionalmente popolare. E invece mi sbaglio, perché nei giorni a seguire mi accorgo che questa componente radical-chic, associata ad un’impronta culturale che potrei definire “no-global”, è diventata una caratteristica diffusamente londinese.
Così, dovunque siate e voltiate lo sguardo, vi si parerà davanti un negozio che vi propone cibo organic (biologico), local, healthy (che non danneggia la salute, anzi fa bene!) ed environmentally friendly (ecologico), ovvero un negozio che celebra cibo, mode e cultura di altri paesi, o ancora una piccola boutique di design o di abbigliamento di tendenza. Evidentemente, i disastri ecologici sempre più frequenti, i rischi sempre più alti per la salute, i segni profondi della crisi del capitalismo hanno prodotto una - almeno apparente - nuova sensibilità rispetto alla società e all’ambiente.
Con un’unica pecca, ossia che nemmeno la passione per il local e l’organic può sfuggire alla produzione su scala industriale e ai processi di massificazione. Dunque, bello vedere un uso estensivo del riciclabile e del fair trade , ma se vi guardate intorno il processo di replica all’infinito ha proporzioni incredibili.
Il bello di Londra è però la capacità di conservare la varietà e di continuare a rappresentare molte anime. Così, dopo l’aperitivo eccoci a Brick lane, Banglatown, nonché covo di comunisti nostalgici e di locali di ogni genere. Finiremo prima a un meeting di Pathfinder, una casa editrice che continua a sostenere e diffondere il mito della rivoluzione comunista, poi in un take away indiano a mangiare pakora e polpette, infine in un pub svedese con una bella terrazza in legno, dove purtroppo non si può evitare l’odore di aringa che viene fuori a getto continuo dalla cappa della cucina.
La notte non si dorme molto, causa trasformatore dell’aria condizionata rumoroso. Per fortuna, gli inglesi sono davvero attenti ai bisogni dei clienti e quindi la mattina seguente un efficientissimo tecnico verrà a concederci l’agognata tregua dal rumore di sottofondo.
Sabato abbiamo due obiettivi principali: una mostra di fotografia in una galleria che si chiama Ambika P3 e l’Easter Chocolate Festival sulla Southbank.
La metropolitana nei weekend è imprevedibile perché gli inglesi presuppongono – giustamente – che sia più facile far sopportare i disagi di lavori di potenziamento della rete nel fine settimana piuttosto che durante i giorni lavorativi. Così, ci mettiamo un po’ ad arrivare alla nostra stazione della metropolitana e nel frattempo assistiamo a un buffo raduno di gente in bici (anche e soprattutto d’epoca) vestite in tweed secondo lo stile inglese dei signorotti di campagna della prima metà del Novecento.
La galleria Ambika P3 sta praticamente di fronte al museo delle cere (il celebre Madame Tussaud) e occupa un pezzo di garage sotterraneo che è stato volutamente mantenuto grezzo e minimalista. Luogo, mostra e gente molto londinesi radical-chic! Ci sono i lavori di quattro fotografi vincitori del Deutsche Borse Photographie Prize, la cui opera fotografica non punta certamente a una versione classica di estetica, bensì a utilizzarne alcuni canoni per stravolgerli, spiazzando lo spettatore in chiave filosofico-sociale. Ed ovviamente ad Ambika P3 non manca un bel banchetto di caffè e dolci biologici.
A questo punto prima una bella passeggiata in un fioritissimo Regent’s Park, poi verso St Christopher Place, con tappa Dim Sum (ravioli al vapore e alla griglia splendidi a vedersi, ma un po’ collosi, soprattutto quelli viola impastati col cavolo) e poi l’immancabile Selfridges con le sue buste gialle (dove C. pensa di poter comprare una giacca Diesel con 48 sterline; peccato che ha visto il cartellino sbagliato!).
A questo punto ci aspetta il festival del cioccolato sulla sponda sud del Tamigi. Macarons, panforte al cioccolato, fave di cacao, cioccolata di ogni genere e forma allietano il calare del sole. La giornata finisce in bellezza con una bella (e sana) cena tailandese da Rosa’s a Soho e una passeggiata in questo quartiere che il sabato sera si trasforma in uno dei cuori pulsanti della città. Una breve puntatina in un locale trendy, un dolcino da quello che pensiamo essere un esclusivo ristorante francese, Café Rouge, e invece è una catena presente anche negli aeroporti londinesi, e infine a nanna.
Il mattino dopo c’è solo il tempo per una full English breakfast ed eccoci in metropolitana, ciascuno nella propria direzione. Durante il mio lungo viaggio in treno verso il Galles, penso che Londra è una città interessante per valutare lo stato di salute di questa nostra ormai vecchia Europa. E così accolgo positivamente questa quasi ossessione londinese per l’ecologico, il biologico e il locale, sebbene mi auguro non si tratti solo di una moda. Osservo - piacevolmente sorpresa - una giovane mamma che raccoglie un pezzo di galletta di riso che il suo bimbo ha buttato per terra in metropolitana e, dopo averci soffiato un po’ su, lo mangia. E al contempo mi fa un po’ paura l’altrettanto pronunciata ossessione della città per la sicurezza. Telecamere ovunque, postazioni per chiamare aiuto, cartelli in metropolitana che suggeriscono di segnalare al personale della sicurezza chiunque “abbia un’aria sospetta”.
Penso che siamo una società schizofrenica, in cui le istituzioni sono un po’ avvoltolate su se stesse, mentre dal basso sembra provenire una richiesta di riappropriazione della propria libertà e del senso della comunità. Chissà se c’è qualcosa di buono da sperare.
lunedì 4 aprile 2011
Boris il Film
Mi aspettavo una fila e una folla senza precedenti, cosicché per tutto il weekend ho cercato di convincere C. a comprare online i biglietti. Alla fine ho ceduto, ottenendo solo di arrivare al cinema 45 minuti prima dell'inizio del film.
Ma... complice l'ultimo spettacolo e un Nord Est forse un po' freddino nei confronti di un prodotto della romanità, come la serie televisiva Boris, nessuna fila al botteghino e sala mezza vuota. Non sapete cosa vi siete persi!
Ho conosciuto la serie televisiva qualche anno fa grazie ad un'amica e da allora sono diventata una fan "senza se e senza ma".
Cosicché sono andata al cinema preparata e piena di aspettative. E confermo di essere ancora stabilmente tra i fan :-)
Per chi non lo sapesse, Boris è un pesce rosso, quello che il regista Renè Ferretti (Francesco Pannofino) si porta sul set come portafortuna ogni volta che è impegnato in un progetto televisivo o cinematografico. Qualcuno dice che porti sfiga. E - come saprà chi ha visto la serie - forse quello nell'acquario non è neppure realmente Boris ;-)
Dopo l'avventura delle soap televisive, in particolare il fortunatissimo Gli occhi del cuore, Renè ha deciso di fare il salto al grande schermo, portando al cinema un film di impegno sociale tratto dal bestseller La casta di Stella e Rizzo. Purtroppo, non solo finirà per ritrovarsi a lavorare con la troupe e il cast sgangherati che già lo accompagnavano durante le riprese televisive, ma dovrà abbandonare il sogno di un cinema alto per ripiegare su una versione de La casta da cinepanettone.
Il bersaglio satirico è il mondo televisivo e cinematografico italiano, fatto di sceneggiatori ricchi ma privi di idee, produttori inetti e supini al potere, attrici cagne ma procaci o figlie di papà, oppure brave ma disadattate, attori egocentrici ai limiti della sopportabilità, tecnici cocainomani, stagisti schiavi, una varia umanità ignorante e greve, un mondo presuntamente intellettuale insopportabile e nevrotico, intriso di ipocrisia e falsità a tutti i livelli.
Ma, evidentemente, in quel mondo televisivo e cinematografico si rispecchia l'Italietta tutta, con i suoi vizi e le sue bassezze. Certo, anche con la sua umanità, ma un'umanità che non basta più e che ormai fa solo tristezza.
Chiunque potrà riconoscere quel mondo sgangherato e le sue dinamiche nel proprio ambiente umano e lavorativo.
Il film comincia un po' in sordina, ma poi è tutto un crescendo di comicità e di autoironia intelligente e pungente. Si ride (e forse si ride ancora di più se non si è vista la serie televisiva), ma è inevitabile un sentimento di rabbia che cresce insieme alle risate. Si esce dalla sala divertiti, ma in fondo depressi. Ma siamo davvero tutti così? Vedere Arianna (Caterina Guzzanti) e Alessandro (Alessandro Tiberi) baciarsi di fronte al cinepanettone è una sconfitta per tutti. E una delusione per chi ha seguito per tre serie la loro tormentata storia d'amore.
Alcune sequenze sono davvero da antologia della comicità. Per esempio, lo straordinario dialogo tra Renè e l'attrice nevrotica per convincerla a rimanere sul set, l'escamotage del foglietto "8x12" per far assumere all'attrice cagna (la bravissima Carolina Crescentini) un'aria pensierosa, l'alloggio dei tre sceneggiatori di sinistra (con tanto di campo da tennis interno), le riunioni con i dirigenti RAI, la ricerca dell'attore per il ruolo "faccia di merda", i colloqui con i potenziali sceneggiatori.
Ovviamente, i riferimenti a fatti, persone e situazioni si sprecano e probabilmente con un po' di pazienza potrebbero essere tutti rintracciati. Ma non è la cosa più importante. Ben più importante è il ritratto complessivo che ne emerge. Realistico nel suo essere sopra le righe.
Bravi Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, che hanno vinto la difficile sfida di portare al cinema una serie televisiva, senza perdere originalità e verve (come anche le recensioni di critici accreditati confermano; chissà se poi lo fanno per scongiurare la possibilità di essere i prossimi bersagli di Boris!).
E dai, dai, dai (il mio mantra già da un pezzo)!
Voto: 4/5
Ma... complice l'ultimo spettacolo e un Nord Est forse un po' freddino nei confronti di un prodotto della romanità, come la serie televisiva Boris, nessuna fila al botteghino e sala mezza vuota. Non sapete cosa vi siete persi!
Ho conosciuto la serie televisiva qualche anno fa grazie ad un'amica e da allora sono diventata una fan "senza se e senza ma".
Cosicché sono andata al cinema preparata e piena di aspettative. E confermo di essere ancora stabilmente tra i fan :-)
Per chi non lo sapesse, Boris è un pesce rosso, quello che il regista Renè Ferretti (Francesco Pannofino) si porta sul set come portafortuna ogni volta che è impegnato in un progetto televisivo o cinematografico. Qualcuno dice che porti sfiga. E - come saprà chi ha visto la serie - forse quello nell'acquario non è neppure realmente Boris ;-)
Dopo l'avventura delle soap televisive, in particolare il fortunatissimo Gli occhi del cuore, Renè ha deciso di fare il salto al grande schermo, portando al cinema un film di impegno sociale tratto dal bestseller La casta di Stella e Rizzo. Purtroppo, non solo finirà per ritrovarsi a lavorare con la troupe e il cast sgangherati che già lo accompagnavano durante le riprese televisive, ma dovrà abbandonare il sogno di un cinema alto per ripiegare su una versione de La casta da cinepanettone.
Il bersaglio satirico è il mondo televisivo e cinematografico italiano, fatto di sceneggiatori ricchi ma privi di idee, produttori inetti e supini al potere, attrici cagne ma procaci o figlie di papà, oppure brave ma disadattate, attori egocentrici ai limiti della sopportabilità, tecnici cocainomani, stagisti schiavi, una varia umanità ignorante e greve, un mondo presuntamente intellettuale insopportabile e nevrotico, intriso di ipocrisia e falsità a tutti i livelli.
Ma, evidentemente, in quel mondo televisivo e cinematografico si rispecchia l'Italietta tutta, con i suoi vizi e le sue bassezze. Certo, anche con la sua umanità, ma un'umanità che non basta più e che ormai fa solo tristezza.
Chiunque potrà riconoscere quel mondo sgangherato e le sue dinamiche nel proprio ambiente umano e lavorativo.
Il film comincia un po' in sordina, ma poi è tutto un crescendo di comicità e di autoironia intelligente e pungente. Si ride (e forse si ride ancora di più se non si è vista la serie televisiva), ma è inevitabile un sentimento di rabbia che cresce insieme alle risate. Si esce dalla sala divertiti, ma in fondo depressi. Ma siamo davvero tutti così? Vedere Arianna (Caterina Guzzanti) e Alessandro (Alessandro Tiberi) baciarsi di fronte al cinepanettone è una sconfitta per tutti. E una delusione per chi ha seguito per tre serie la loro tormentata storia d'amore.
Alcune sequenze sono davvero da antologia della comicità. Per esempio, lo straordinario dialogo tra Renè e l'attrice nevrotica per convincerla a rimanere sul set, l'escamotage del foglietto "8x12" per far assumere all'attrice cagna (la bravissima Carolina Crescentini) un'aria pensierosa, l'alloggio dei tre sceneggiatori di sinistra (con tanto di campo da tennis interno), le riunioni con i dirigenti RAI, la ricerca dell'attore per il ruolo "faccia di merda", i colloqui con i potenziali sceneggiatori.
Ovviamente, i riferimenti a fatti, persone e situazioni si sprecano e probabilmente con un po' di pazienza potrebbero essere tutti rintracciati. Ma non è la cosa più importante. Ben più importante è il ritratto complessivo che ne emerge. Realistico nel suo essere sopra le righe.
Bravi Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, che hanno vinto la difficile sfida di portare al cinema una serie televisiva, senza perdere originalità e verve (come anche le recensioni di critici accreditati confermano; chissà se poi lo fanno per scongiurare la possibilità di essere i prossimi bersagli di Boris!).
E dai, dai, dai (il mio mantra già da un pezzo)!
Voto: 4/5