La casa degli spiriti / Isabel Allende. Milano: Feltrinelli, 1987.
Lo so. Non è di certo una novità editoriale. Ce l'avevo lì sugli scaffali da anni senza aver mai provato il benché minimo interesse a leggerlo. Poi il suggerimento di una persona speciale è bastato a farmi mettere in valigia La casa degli spiriti e a dedicare circa metà della vacanza alla sua lettura.
Ho saputo che mi sarebbe potuto piacere nel momento stesso in cui mi è stato chiaro che si trattava di una saga familiare, genere che - dopo la lettura di Middlesex e Vita - è diventato uno dei miei preferiti. Le quattro generazioni di donne della famiglia del Valle che ruotano attorno all'epica figura di Esteban Trueba, da Nivea, a Rosa e Clara, a Blanca, infine ad Alba, coprono poco meno di un secolo (sostanzialmente il Novecento), intrecciandosi - ora più ora meno - con la straordinaria storia del Cile (mai esplicitamente nominato nel romanzo).
Il racconto parte un po' in sordina e, dal mio punto di vista, fa un po' fatica a decollare. Protagonisti assoluti della storia per buoni 2/3 sono Esteban e Clara, una specie di antitesi vivente: tanto materialista, concreto, brutale ed efficace il primo, quanto eterea, spirituale, visionaria, distante dalla realtà la seconda. Nonostante il coinvolgimento in politica di Esteban, che diventerà esponente di spicco del Partito Conservatore e Senatore, e i diversificati ruoli sociali ricoperti da Clara, le vicende storiche restano a lungo sullo sfondo, descrivendo un Paese per niente toccato dalle grandi guerre che si combattono prevalentemente sul continente europeo e stabilmente governato per decenni dal Partito Conservatore, guidato da notabili e proprietari terrieri in un equilibrio sociale non certo giusto, ma indubbiamente solido.
L'età di transizione rappresentata dai figli di Esteban e Clara, Blanca e i gemelli, Jaime e Nicolas, rappresenta la fase in cui gradualmente il privato tende a sfociare nel pubblico di una storia politica che, con l'avvento dei socialisti al governo, vede artificiosamente sconvolti gli equilibri sociali ed economici, portando la nazione sull'orlo di una guerra civile che la consegnerà nelle mani della dittatura militare. Il mondo che Clara ed Esteban avevano conosciuto, racchiuso tra la tenuta delle Tre Marie e la casa dell'angolo, perderà i suoi contorni di certezze ideali, facendosi per molti versai incomprensibile, fino a coinvolgere nel suo terrore Alba (la figlia di Blanca), il personaggio che personalmente mi ha più appassionato.
Sebbene la parte del racconto privato della famiglia Trueba risulti affascinante per l'originalità dei personaggi, comprese le figure minori, e per la loro forza, per quanto mi riguarda ho trovato più emozionante, nonché di grande interesse, la parte in cui pubblico e privato si mescolano rendendo la famiglia Trueba testimone e protagonista del momento forse più difficile della storia del Cile.
In fondo, Esteban e Alba (nonno e nipote) rappresentano i due volti della nazione, le certezze e le regole un po' arcaiche, ma in parte sensate, del passato, e l'idealità carica di promesse e purificata dall'odio del futuro.
Mi è venuta voglia di leggere ancora sulla storia di questo Paese, di capirne di più, di cogliere le ragioni, di interpretare le motivazioni degli errori. E già questo sarebbe sufficiente per fare de La casa degli spiriti un gran libro.
Se a questo si aggiungono la componente visionaria e onirica che lo pervade, l'alto contenuto immaginifico, il ruolo di creazione del reale e di testimonianza affidato alla scrittura, ne viene fuori un affresco maestoso che a distanza di quasi vent'anni dalla sua prima pubblicazione non perde smalto né attrattiva per qualunque età e generazione.
Certo, Middlesex mi aveva conquistato il cuore in un modo che forse Isabel Allende non riesce a fare, ma a questo punto parliamo solo di gusti personali di scrittura.
Voto: 4/5
P.S. Il prossimo libro da recensire avrebbe dovuto essere L'eredità di Eszter di Sándor Márai: peccato che l'ho dimenticato nell'aereo Air China di ritorno da Shanghai, quando ne avevo letto solo le prime 50 pagine! Cercherò di rimediare con qualche post sulle mie vacanze apulo-cinesi...
lunedì 30 agosto 2010
domenica 8 agosto 2010
Carne fresca / Stella Duffy
Carne fresca / Stella Duffy; trad. di Anna Mioni. Venezia: Marsilio, 2006.
Seconda puntata per me (in realtà si tratta della quarta da un punto di vista editoriale) delle avventure personali e investigative della detective Saz Martin, questa volta impegnata, per conto dell'amico Chris, nella ricerca della madre naturale e della verità sul suo passato. Proprio nello stesso momento in cui ha deciso, con la sua compagna Molly, di avere un figlio e di sperimentare le gioie e le difficoltà della maternità.
Sarà un viaggio in un passato nel quale i limiti della scienza e una morale sociale convenzionale condannavano le ragazze madri alla disapprovazione e spingevano le coppie sterili a muoversi ai limiti della legalità.
Meno brillante, per certi versi, de La settima onda, soprattutto passa un po' in secondo piano il rapporto tra Saz e Molly che era certamente l'aspetto più vivace di quel romanzo. Politicamente sempre più scorretto, nella misura in cui compare sulla scena la ex di Saz, Carrie, e le strisce di cocaina da condividere.
Complessivamente una lettura piacevole, giallisticamente forse più credibile e meno estrema de La settima onda, ma forse meno appassionante; si mantiene su un livello di medietà che ne fa una perfetta lettura estiva.
In generale, un ottimo punto di partenza per una estate di letture che per me alternerà classici e gialli contemporanei, nel desiderio di una discontinuità con la routine quotidiana di cui a questo punto avverto decisamente la necessità.
Intanto sfrutto una delle pochissime reti wifi ancora non protette disponibili nell'etere della casa pugliese paterna, per quanto la cosa mi costringa a stare quasi proiettata sul balcone su supporti decisamente instabili. Del resto, in questo bel pomeriggio estivo, caldo e ventilato, sospeso e vitale, silenzioso e pieno, la cosa non mi crea nessun fastidio. Anzi, produce un senso di irreale beatitudine che lascio fluire nelle vene senza opporre alcuna resistenza.
Voto: 3/5
Seconda puntata per me (in realtà si tratta della quarta da un punto di vista editoriale) delle avventure personali e investigative della detective Saz Martin, questa volta impegnata, per conto dell'amico Chris, nella ricerca della madre naturale e della verità sul suo passato. Proprio nello stesso momento in cui ha deciso, con la sua compagna Molly, di avere un figlio e di sperimentare le gioie e le difficoltà della maternità.
Sarà un viaggio in un passato nel quale i limiti della scienza e una morale sociale convenzionale condannavano le ragazze madri alla disapprovazione e spingevano le coppie sterili a muoversi ai limiti della legalità.
Meno brillante, per certi versi, de La settima onda, soprattutto passa un po' in secondo piano il rapporto tra Saz e Molly che era certamente l'aspetto più vivace di quel romanzo. Politicamente sempre più scorretto, nella misura in cui compare sulla scena la ex di Saz, Carrie, e le strisce di cocaina da condividere.
Complessivamente una lettura piacevole, giallisticamente forse più credibile e meno estrema de La settima onda, ma forse meno appassionante; si mantiene su un livello di medietà che ne fa una perfetta lettura estiva.
In generale, un ottimo punto di partenza per una estate di letture che per me alternerà classici e gialli contemporanei, nel desiderio di una discontinuità con la routine quotidiana di cui a questo punto avverto decisamente la necessità.
Intanto sfrutto una delle pochissime reti wifi ancora non protette disponibili nell'etere della casa pugliese paterna, per quanto la cosa mi costringa a stare quasi proiettata sul balcone su supporti decisamente instabili. Del resto, in questo bel pomeriggio estivo, caldo e ventilato, sospeso e vitale, silenzioso e pieno, la cosa non mi crea nessun fastidio. Anzi, produce un senso di irreale beatitudine che lascio fluire nelle vene senza opporre alcuna resistenza.
Voto: 3/5
giovedì 5 agosto 2010
FUORI TEMA: Il puzzle y yo
Sto facendo un puzzle.
Raffigura la Notte stellata di Van Gogh, il dipinto che in assoluto di più mi ha colpito nella mia visita newyorkese al MoMA.
Prima di partire per Bruxelles mi ero messa in testa che avrei comprato questo puzzle e che una volta finito l'avrei appeso alle pareti della mia nuova casa.
Ebbene. Ho dovuto rinunciare a questo progetto che non sapevo essere così ambizioso. Qui accanto vedete a che punto sono dopo tre mesi. Il nuovo obiettivo è diventato finirlo prima della partenza e riuscire a trasportarlo a casa senza smontarlo (con un accrocco che ho pagato più del puzzle!). Certamente, si sta rivelando il puzzle più difficile che io abbia mai affrontato (e ne ho fatti diversi!), ma anche il più intrigante.
Mi sorprende il mio rapporto con i puzzle. Apparentemente sono quanto di più antitetico a me possa esistere sulla faccia della terra. Certo, la sua riuscita dipende dall'impegno e dalla bravura, ma soprattutto dalla pazienza e dalla capacità di accettare le sue ineluttabili regole.
Pazienza? Parola assente dal mio personale vocabolario, dove invece la fanno da padrone impulsività, attivismo, movimento, accelerazione, costante proiezione sul futuro.
La dinamica relazionale che il puzzle mi costringe a intrattenere col tempo mi affascina.
Entrare nella logica del puzzle richiede una fase di attesa attiva, significa entrarci in sintonia, fare attenzione ai particolari, non stancarsi di provare e riprovare, dedicare del tempo ai "preliminari".
Anche uscire dal puzzle non si può realmente decidere in autonomia. Infatti, arriverà sempre, immancabilmente, un momento in cui per quanto ci si sforzi non si riuscirà a incastrare neppure una tessera. Inutile, dunque, fare nottata e insistere. Meglio aspettare un momento migliore.
La gioia che dà vedere l'immagine formarsi lentissimamente sotto i propri occhi è assolutamente unica, così come sfiorare con le mani aperte la superficie sempre più ampia che si va componendo è un piacere fisico di rara intensità; è invece quasi del tutto effimera (ma fantasticamente infantile!) la felicità che nasce dal collocare una tessera, subito superata dalla voglia di metterne un'altra. In fondo, anche la soddisfazione di completare un puzzle, per quanto grande, è destinata ad essere rapidamente rimpiazzata dal desiderio di una nuova sfida.
Il puzzle per me non è uno spazio bianco. Gli infiniti momenti passati a osservare sfumature, colori e forme non sono persi La sproporzione tra il lungo tempo passato sul puzzle e il numero irrisorio di tessere inserite non mi dà ansia. Anzi calma la necessità di riempire ogni vuoto e fa dimenticare le angosce. Costringe a vivere nel qui e ora, imparare ad accettare nuovi ritmi.
Insomma, da un certo punto di vista, ho la sensazione che non ci sia niente di più contraddittorio di un puzzle. E che proprio questa contraddittorietà me lo renda affine e soprattutto lo renda affine a quella che in parte è - e in parte vorrei fosse - la mia visione della vita.
Un mix di volontarismo e fatalismo. Lasciarsi andare al flusso dell'esistenza, senza resistenze o paure, ma anche attenti a cogliere quelle correnti che più sono in sintonia con il nostro spirito, a non farsi sfuggire - nell'aggrovigliarsi dei pensieri - quei momenti magici di perfetta armonia.
Capire che il piacere è nel mentre. Che una costante proiezione in avanti dà la spinta propulsiva, ma può svuotare il farsi delle cose.
Aspettare lasciandosi pervadere dall'intorno.
Consentire alle cose, alle persone, alle situazioni di comunicare con le nostre profondità senza forzare l'incastro delle tessere.
Sentire il proprio corpo. Attivare i propri sensi. Lasciare andare la propria mente ai suoi imprevedibili percorsi.
Ritrovare il contatto. Con se stessi, prima di tutto.
Ah... dimenticavo! Buone vacanze a tutti!
Raffigura la Notte stellata di Van Gogh, il dipinto che in assoluto di più mi ha colpito nella mia visita newyorkese al MoMA.
Prima di partire per Bruxelles mi ero messa in testa che avrei comprato questo puzzle e che una volta finito l'avrei appeso alle pareti della mia nuova casa.
Ebbene. Ho dovuto rinunciare a questo progetto che non sapevo essere così ambizioso. Qui accanto vedete a che punto sono dopo tre mesi. Il nuovo obiettivo è diventato finirlo prima della partenza e riuscire a trasportarlo a casa senza smontarlo (con un accrocco che ho pagato più del puzzle!). Certamente, si sta rivelando il puzzle più difficile che io abbia mai affrontato (e ne ho fatti diversi!), ma anche il più intrigante.
Mi sorprende il mio rapporto con i puzzle. Apparentemente sono quanto di più antitetico a me possa esistere sulla faccia della terra. Certo, la sua riuscita dipende dall'impegno e dalla bravura, ma soprattutto dalla pazienza e dalla capacità di accettare le sue ineluttabili regole.
Pazienza? Parola assente dal mio personale vocabolario, dove invece la fanno da padrone impulsività, attivismo, movimento, accelerazione, costante proiezione sul futuro.
La dinamica relazionale che il puzzle mi costringe a intrattenere col tempo mi affascina.
Entrare nella logica del puzzle richiede una fase di attesa attiva, significa entrarci in sintonia, fare attenzione ai particolari, non stancarsi di provare e riprovare, dedicare del tempo ai "preliminari".
Anche uscire dal puzzle non si può realmente decidere in autonomia. Infatti, arriverà sempre, immancabilmente, un momento in cui per quanto ci si sforzi non si riuscirà a incastrare neppure una tessera. Inutile, dunque, fare nottata e insistere. Meglio aspettare un momento migliore.
La gioia che dà vedere l'immagine formarsi lentissimamente sotto i propri occhi è assolutamente unica, così come sfiorare con le mani aperte la superficie sempre più ampia che si va componendo è un piacere fisico di rara intensità; è invece quasi del tutto effimera (ma fantasticamente infantile!) la felicità che nasce dal collocare una tessera, subito superata dalla voglia di metterne un'altra. In fondo, anche la soddisfazione di completare un puzzle, per quanto grande, è destinata ad essere rapidamente rimpiazzata dal desiderio di una nuova sfida.
Il puzzle per me non è uno spazio bianco. Gli infiniti momenti passati a osservare sfumature, colori e forme non sono persi La sproporzione tra il lungo tempo passato sul puzzle e il numero irrisorio di tessere inserite non mi dà ansia. Anzi calma la necessità di riempire ogni vuoto e fa dimenticare le angosce. Costringe a vivere nel qui e ora, imparare ad accettare nuovi ritmi.
Insomma, da un certo punto di vista, ho la sensazione che non ci sia niente di più contraddittorio di un puzzle. E che proprio questa contraddittorietà me lo renda affine e soprattutto lo renda affine a quella che in parte è - e in parte vorrei fosse - la mia visione della vita.
Un mix di volontarismo e fatalismo. Lasciarsi andare al flusso dell'esistenza, senza resistenze o paure, ma anche attenti a cogliere quelle correnti che più sono in sintonia con il nostro spirito, a non farsi sfuggire - nell'aggrovigliarsi dei pensieri - quei momenti magici di perfetta armonia.
Capire che il piacere è nel mentre. Che una costante proiezione in avanti dà la spinta propulsiva, ma può svuotare il farsi delle cose.
Aspettare lasciandosi pervadere dall'intorno.
Consentire alle cose, alle persone, alle situazioni di comunicare con le nostre profondità senza forzare l'incastro delle tessere.
Sentire il proprio corpo. Attivare i propri sensi. Lasciare andare la propria mente ai suoi imprevedibili percorsi.
Ritrovare il contatto. Con se stessi, prima di tutto.
Ah... dimenticavo! Buone vacanze a tutti!