Che dire? A single man mi è piaciuto, anche se altrettanto facilmente avrebbe potuto non piacermi, perché è una linea sottile quella che separa il piacere dal non piacere in film come questi.
La storia, tratta dal romanzo Un uomo solo di Christopher Isherwood, racconta una giornata della vita del professor George Falconer (Colin Firth), esattamente il 30 novembre 1962, il giorno che lui ha deciso di togliersi la vita, incapace di ritrovare un senso alle sue giornate dopo la morte in un incidente stradale del suo compagno per sedici anni, Jim (Matthew Goode). La giornata trascorrerà più o meno come al solito: la sveglia e la colazione in una casa bellissima, ma vuota, la lezione all'università, le commissioni del pomeriggio, l'incontro casuale con un ragazzo spagnolo bellissimo, la serata a casa della vicina e amica Charlotte (Julianne Moore), da sempre innamorata di lui, il dopo cena a prendere un whisky nel solito locale dove - non casualmente - la sua strada incrocia quella del suo seducente e ambiguo studente Kenny (Nicholas Hoult), che lo trascinerà in una pericolosa nuotata notturna. In questa normale giornata, la differenza è che George porta con sé la pistola con cui la farà finita e vive ogni momento come occasione di memoria della sua storia con Jim. Fin qui la storia.
Non possiamo poi passare sotto silenzio la confezione di questo film, di cui si è tanto parlato per sottolinearne la cura calligrafica del particolare, la scelta più che attenta di ogni inquadratura, la perfezione formale di una ricostruzione quasi maniacale degli anni Sessanta (arredi, trucco, pettinature etc.). Aggiungerei la scelta di una pellicola sgranata, l'alternanza - secondo me non casuale - di colori spenti e colori troppo accesi (com'era tipico dei film anni Sessanta), la scelta di una musica di sottofondo un po' demodè, le citazioni filmiche (il grande cartellone di Psycho) e musicali. Fin dall'apertura hai la sensazione di essere volontariamente risucchiata indietro nel tempo e tutto ciò è altamente godibile.
Ma è proprio nel rapporto tra la narrazione e la confezione formale che si sofferma la maggior parte delle critiche, a sottolineare che - nonostante la straordinaria interpretazione di Colin Firth (vincitore della Coppa Volpi al Festival di Venezia) - il film resta freddo, non riesce a muovere emozioni e partecipazione. Il che è vero.
Personalmente, credo però che questa freddezza, questo senso di sospensione e di distacco, questa vena depressa, quest'atmosfera ovattata che caratterizzano tutto il film siano assolutamente voluti e ricercati dal regista e dagli attori e, non a caso, il film comincia e finisce con l'immagine del corpo nudo del professor Falconer che fluttua senza volontà nell'acqua. E ancora non a caso la memoria di Jim è quasi sempre associata al mettere in evidenza la contrapposizione tra questo ragazzo ottimista e che sa sorridere alla vita e George, appesantito dall'essere in bilico tra il sensato e l'insensato, oppresso dalla presenza oscura della morte, bisognoso di un progetto e di una prospettiva, tutte sensazioni che apparentemente la morte del suo compagno ha determinato, ma che forse George si porta dentro da sempre e Jim è riuscito solo per un po' a smorzare.
In uno dei flashback, forse il più bel momento del film, George e Jim sono sul divano a leggere con i cani che sonnecchiano ai loro piedi. Jim parla di un episodio accaduto con il suo cane e ne trae motivo per osservare che i cani hanno capito tutto su come vivere la vita. George banalizza la cosa aggiungendo che ciò dipende dal fatto che sono creature semplici, come alcune persone, al che Jim aggiunge che la forza delle creature semplici è la capacità di saper vivere pienamente il presente senza proiettarsi costantemente nel futuro e che in fondo sarebbe bello essere come una farfalla che vive solo tre giorni, ma in quei pochi giorni racchiude tutta la bellezza dell'esistenza.
L'ultima giornata di George è la presunta dimostrazione di questo assioma: l'inutile trascorrere del tempo nell'insensatezza di una vita la cui componente sociale quasi sempre è una proiezione del personaggio che decidiamo di recitare, la solitudine esistenziale e senza rimedio, l'inevitabile incomunicabilità della nostra esistenza e del nostro essere che ci portiamo appresso. Una vita che si accende solo in quei rari momenti in cui riusciamo a creare un contatto con un'altra persona, in cui sappiamo guardare le cose con stupore, in cui tutto sembra ricominciare con rinnovata vitalità. Quei momenti che cerchi di afferrare e preservare, ma poi inevitabilmente e rapidamente svaniscono. La condanna di non essere esseri semplici, di essere dotati di un complesso mondo interiore e di una mente che è costantemente proiettata sul futuro e che inesorabilmente conosce il proprio destino di morte.
Se dunque cercate un film che parli di amore e di passione cambiate sala, piuttosto questo film parla dell'insensata ricerca di un senso della vita e della morte.
Insomma, un film che, nel farsi bandiera di un posizionamento nel passato, come il libro dal quale è tratto, appare invece concettualmente di una modernità sconcertante ed è in grado di esprimere tutta l'inquietudine del nostro essere postmoderni. Sarei curiosa a questo punto di leggere il libro di Isherwood per capire se questa sensazione nasce dalla sua scrittura o è il colore che Tom Ford ha voluto dare a questo personaggio e a questa storia (qui la sua intervista a Che tempo che fa).
Voto: 4/5
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