Storia di un'ordinaria famiglia disfunzionale. Siamo in un piccolo paese piemontese di provincia, dove il dottor Cristofolini ci racconta la storia della famiglia M.: un padre che si avvia alla vecchiaia e soffre di una indecifrabile e forse inesistente malattia, e i tre figli, le sorelle che evangelicamente si chiamano Marta, la maggiore e la più dedita alla cura della casa e del padre, e Maria, incapace di uscire da una sostanziale confusione dei sentimenti, e il fratello minore Gianni (Fausto Paravidino, autore, regista e interprete), in bilico tra giocosità e fuga. La mamma è morta in circostanze misteriose e di cui si conoscerà qualche dettaglio nel corso del racconto. Intorno a loro altri due personaggi, Fulvio e Fabrizio, rispettivamente fidanzato e pretendente di Maria.
Bravi gli attori, tutti molto credibili, bella la messa in scena, originale la struttura narrativa (a tratti cinematografica più che teatrale).
Il racconto della famiglia M. riserva numerose sorprese che, ovviamente, non svelerò. Vi basti sapere che questo dramma, sapientemente intessuto di un umorismo che consente di sorridere anche delle tragedie e delle piccolezze umane, costituisce una piacevole sorpresa che sinceramente non mi aspettavo.
Avevo già avuto modo di apprezzare Fausto Paravidino e la sua capacità di raccontare storie molto vere in Texas, prodotto cinematografico dotato di una maturità che la giovanissima età dell'autore non faceva certo presagire.
E anche in questo caso Paravidino, che ha scritto questo testo teatrale a soli 24 anni, dimostra la propria sensibilità e profondità nel rappresentare le pieghe dell'animo umano.
Bella la figura del medico di base, narratore quasi involontario perché inevitabilmente destinato per professione ad ascoltare i racconti della gente e a mettere in connessione le malattie fisiche (vere o immaginarie) con le debolezze dell'anima, ma anche lui alla fine coinvolto nella vicenda da protagonista capace di modificare il corso degli eventi.
Ma cos'è esattamente che ci cattura di questo dramma? Personalmente, credo il rapporto tra parole, comportamenti e sentimenti e la particolare configurazione che tali relazioni assumono nella struttura familiare.
Certo la tipizzazione dei profili psicologici è un po' troppo rigida, ma quanto è efficace la sensazione complessiva di un cortocircuito dei sentimenti e delle emozioni che sfocia in varie forme di infantilismo e/o di aggressività!
Paravidino sembra confermare l'idea che la famiglia è in qualche modo il luogo di massima espressione delle patologie individuali e sociali e che queste finiscono per riflettersi nelle dinamiche sociali complessive e ci portiamo dietro anche nel nostro essere adulti.
Nel partecipare allo spettacolo mi è tornata in mente una frase letta chissà dove che credo opportunamente esprime il senso di questa storia: "La nostra vita è una continua navigazione a vista tra l'eccesso di un'attenzione altrui che non desideriamo e la crudeltà della loro indifferenza, tra il disprezzo che nutriamo per essi e il folle bisogno dell'amore di quei pochi di cui non possiamo fare a meno".
Il racconto di Paravidino ne esce al contempo come una rappresentazione universale della rigidità di quella particolare struttura sociale che è la famiglia, che si mantiene in piedi grazie a un equilibrio tanto precario quanto necessario, e come un quadro postmoderno di un'umanità malata di solitudine e di incomunicabilità e incapace di sollevarsi a un più maturo rapporto con i sentimenti.
Forse avrei tagliato solo l'epilogo finale, quella specie di morale della favola, affidata al narratore Cristofolini, che a mio modo di vedere banalizza un po' il racconto; ma nel complesso l'opera mi è sembrata molto misurata, moderna e finemente evocativa per qualunque spettatore.
Dal 25 novembre al 13 dicembre 2009 al Teatro Piccolo Eliseo di Roma.
Voto: 4/5
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