Particolare questo film di Giuseppe Capotondi e capace di suscitare interesse sia dal punto di vista cinematografico che dei contenuti.
Sul piano cinematografico, sorprende la capacità di mescolare generi diversi: la prima metà del film è quasi una ghost story, un "piccolo film di paura", che crea ansia, tensione e fa stare lo spettatore in una condizione di inquietante angoscia; la seconda parte è insieme una storia d'amore, un piccolo giallo, un dramma psicologico.
Ksenia Rappoport, che già avevo enormemente apprezzato ne La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, conferma la sua straordinaria capacità di dare spessore ai personaggi e una complessità che è propria della vita reale. Filippo Timi, sempre bravo, gli fa degnamente da spalla.
Ma, dal mio punto di vista, l'aspetto più interessante del film è la capacità del regista di rendere per immagini il dialogo interiore tra conscio e inconscio e la riflessione che guardare sullo schermo il fluire dell'inconscio suggerisce. Ho trovato entusiasmante il racconto di sintesi dell'inconscio, capace di chiamare a raccolta passato, presente e futuro, di mescolare eventi e persone, di trasfigurare i nostri sensi di colpa e le speranze più recondite. E ancora più entusiasmante è poi il confronto con la realtà e il processo di razionalizzazione e selezione che la nostra mente conscia inevitabilmente fa, e non sempre per il meglio.
In questa fase della vita forse avrei voluto che il film riuscisse a suggerire una via d'uscita, ad aprire una speranza, a forgiare una forma di felicità. Purtroppo, invece, non si può fare a meno di sentire e condividere il blocco interiore dei personaggi, cui neppure essere messi faccia a faccia con le pieghe più profonde del proprio io dà la forza di conferire una reale svolta alla propria esistenza.
E alla fine del film resta sospeso e incombente l'interrogativo sul senso della nostra vita.
Voto: 3,5/5
mercoledì 28 ottobre 2009
giovedì 22 ottobre 2009
Lo spazio bianco
Quando ho letto la trama de Lo spazio bianco di Francesca Comencini mi sono detta che era un film che dovevo assolutamente vedere. Io, come la protagonista, Maria, ho un rapporto conflittuale con il tempo e ho passato buona parte della vita a tentare di addomesticarlo ai miei voleri. Sono impaziente, impulsiva, incapace di accettare la sola idea del passare del tempo. Mi sembra che il tempo a nostra disposizione sia così poco che non ci possiamo permettere il lusso di lasciarlo passare nell'attesa.
Anche Maria è un po' così, forse per motivi diversi dai miei, ma anche lei aggredisce la vita e, in questa ansia, ha finito per asservire la vita a sé piuttosto che mettersi a disposizione del suo sorprendente scorrere, con la conseguenza di una sostanziale insoddisfazione, solitudine e infelicità.
Ma, per fortuna, a volte è la vita stessa che ci mette di fronte a quello che siamo. Nel caso di Maria una gravidanza gestita in solitudine e finita troppo presto con la nascita di una bimba prematura, che solo dopo tre mesi di incubatrice forse potrà essere pronta a vivere veramente.
Che fare di fronte a questo evento? Fermare il tempo, interrompere ogni attività vitale, spaccare tutto, o semplicemente accettare un'attesa impotente, ma partecipe? Maria imparerà sulla sua pelle che lo spazio bianco non si può sempre riempire di quello che vogliamo noi, ma di quello che la vita ci impone.
Più volte Maria, riferendosi alla piccola nell'incubatrice, dice: "Non so se sto aspettando che nasca o che muoia". Mi è sembrata una straordinaria metafora degli spazi bianchi della nostra vita, le crisi, i momenti di transizione, quelli da cui possiamo rinascere o uscire sconfitti.
Margherita Buy è straordinaria nel ruolo di Maria, che forse le è particolarmente congeniale.
Bella l'ambientazione napoletana e i personaggi di contorno che fanno fa contrappunto al personaggio centrale con quell'innata propensione a una certa dose di fatalismo attivo.
Bella la fotografia, il montaggio, i flashback che riempiono l'attesa, azzeccata la colonna sonora. Riuscita la sceneggiatura, rispetto alla quale è opportuno ricordare l'ascendenza dall'omonimo libro di Valeria Parrella, che non ho letto ma a cui va certamente ascritta almeno una parte del merito.
Personalmente avrei però chiuso il film cinque minuti prima della sua vera conclusione, alla fine della lunga camminata di Maria verso l'ospedale. La sequenza finale fa virare infatti il film verso un sentimentalismo e una retorica che non gli appartengono e sposta l'attenzione sull'esito dell'attesa, anziché sul valore del tempo, tema dell'intero film.
Sono uscita dal cinema pensando a quanto scriveva Rob Breszny nell'oroscopo dei Gemelli (il mio segno) di qualche settimana fa: "Nel 2012 accadrà un evento straordinario, ma nel frattempo cosa farete, Gemelli? Trovate almeno tre buoni motivi per fare pace col tempo".
Ebbene, li sto cercando...
Voto: 4/5
Anche Maria è un po' così, forse per motivi diversi dai miei, ma anche lei aggredisce la vita e, in questa ansia, ha finito per asservire la vita a sé piuttosto che mettersi a disposizione del suo sorprendente scorrere, con la conseguenza di una sostanziale insoddisfazione, solitudine e infelicità.
Ma, per fortuna, a volte è la vita stessa che ci mette di fronte a quello che siamo. Nel caso di Maria una gravidanza gestita in solitudine e finita troppo presto con la nascita di una bimba prematura, che solo dopo tre mesi di incubatrice forse potrà essere pronta a vivere veramente.
Che fare di fronte a questo evento? Fermare il tempo, interrompere ogni attività vitale, spaccare tutto, o semplicemente accettare un'attesa impotente, ma partecipe? Maria imparerà sulla sua pelle che lo spazio bianco non si può sempre riempire di quello che vogliamo noi, ma di quello che la vita ci impone.
Più volte Maria, riferendosi alla piccola nell'incubatrice, dice: "Non so se sto aspettando che nasca o che muoia". Mi è sembrata una straordinaria metafora degli spazi bianchi della nostra vita, le crisi, i momenti di transizione, quelli da cui possiamo rinascere o uscire sconfitti.
Margherita Buy è straordinaria nel ruolo di Maria, che forse le è particolarmente congeniale.
Bella l'ambientazione napoletana e i personaggi di contorno che fanno fa contrappunto al personaggio centrale con quell'innata propensione a una certa dose di fatalismo attivo.
Bella la fotografia, il montaggio, i flashback che riempiono l'attesa, azzeccata la colonna sonora. Riuscita la sceneggiatura, rispetto alla quale è opportuno ricordare l'ascendenza dall'omonimo libro di Valeria Parrella, che non ho letto ma a cui va certamente ascritta almeno una parte del merito.
Personalmente avrei però chiuso il film cinque minuti prima della sua vera conclusione, alla fine della lunga camminata di Maria verso l'ospedale. La sequenza finale fa virare infatti il film verso un sentimentalismo e una retorica che non gli appartengono e sposta l'attenzione sull'esito dell'attesa, anziché sul valore del tempo, tema dell'intero film.
Sono uscita dal cinema pensando a quanto scriveva Rob Breszny nell'oroscopo dei Gemelli (il mio segno) di qualche settimana fa: "Nel 2012 accadrà un evento straordinario, ma nel frattempo cosa farete, Gemelli? Trovate almeno tre buoni motivi per fare pace col tempo".
Ebbene, li sto cercando...
Voto: 4/5
martedì 20 ottobre 2009
Viola di mare
Comincerò da quello che mi è piaciuto per non fare troppo torto a un film che è apprezzabile per il coraggio di raccontare una storia scomoda e per le lodevoli intenzioni. Certamente mi è piaciuta la storia raccontata, quella di Angela e Sara nella Favignana della metà dell'Ottocento, una storia incredibile, eppure assolutamente plausibile per chi conosce i meccanismi di ipocrisia e di apparenza che caratterizzano le società più chiuse e retrograde. È infatti proprio in questi contesti che le vicende umane più controverse trovano una loro più o meno assurda composizione che consenta una superficiale pace alla coscienza dei singoli. E per aver riportato in superficie questa storia bisogna rendere merito a Giacomo Pilati e al suo libro Minchia di re, cui il film è liberamente ispirato.
Gli attori sono bravi (anche se le bambine della prima parte del film sono "da dimenticare"), le due protagoniste (Valeria Solarino e Isabella Ragonese) ce la mettono sicuramente tutta e riescono a tratti a coinvolgere e a dare spessore al racconto, ma nondimeno la sensazione di avere a che fare con un prodotto cinematografico un po' ingessato e a tratti anacronistico difficilmente ci abbandona.
Capisco che probabilmente era nelle intenzioni della regista (Donatella Maiorca) conferire modernità a questa storia, grazie alla colonna sonora (di Gianna Nannini), ad alcune scene e al modo di essere delle due attrici, ma alla fine tutto questo produce un inevitabile effetto straniante che personalmente non ho molto gradito...
Ho poi trovato poco convincente la sceneggiatura (a tratti i dialoghi sono davvero poco credibili, e del resto anche il libro mi aveva in parte fatto la stessa impressione di parziale superficialità) e il montaggio (in alcuni casi piuttosto ingenuo dal mio punto di vista).
In definitiva, mi sarei aspettata un film più emozionante, ma non nel senso moderno di questo termine, bensì come conseguenza di un'operazione un po' più profonda e raffinata.
In definitiva, mi è sembrata un'occasione in parte mancata dal punto di vista cinematografico o forse ci ero andata con troppe aspettative!
Voto: 2,5/5
Gli attori sono bravi (anche se le bambine della prima parte del film sono "da dimenticare"), le due protagoniste (Valeria Solarino e Isabella Ragonese) ce la mettono sicuramente tutta e riescono a tratti a coinvolgere e a dare spessore al racconto, ma nondimeno la sensazione di avere a che fare con un prodotto cinematografico un po' ingessato e a tratti anacronistico difficilmente ci abbandona.
Capisco che probabilmente era nelle intenzioni della regista (Donatella Maiorca) conferire modernità a questa storia, grazie alla colonna sonora (di Gianna Nannini), ad alcune scene e al modo di essere delle due attrici, ma alla fine tutto questo produce un inevitabile effetto straniante che personalmente non ho molto gradito...
Ho poi trovato poco convincente la sceneggiatura (a tratti i dialoghi sono davvero poco credibili, e del resto anche il libro mi aveva in parte fatto la stessa impressione di parziale superficialità) e il montaggio (in alcuni casi piuttosto ingenuo dal mio punto di vista).
In definitiva, mi sarei aspettata un film più emozionante, ma non nel senso moderno di questo termine, bensì come conseguenza di un'operazione un po' più profonda e raffinata.
In definitiva, mi è sembrata un'occasione in parte mancata dal punto di vista cinematografico o forse ci ero andata con troppe aspettative!
Voto: 2,5/5
martedì 13 ottobre 2009
Cyrano de Bergerac
Sono andata a vedere al Teatro Argentina di Roma la versione di Cyrano recitata da Massimo Popolizio. Come spesso accade per generazioni ibride come la mia, la curiosità me l'aveva suscitata non tanto la conoscenza del testo teatrale originario, bensì la memoria del film con Gérard Depardieu che avevo trovato a dir poco adorabile. Inoltre, la storia di Cyrano mi piace molto, e a lungo mi sono identificata con questo personaggio per il quale l'aspetto fisico e i fantasmi interiori diventano una barriera quasi invalicabile all'espressione aperta dei propri sentimenti.
L'allestimento teatrale è interessante e devo dire che - da profana quale sono - Massimo Popolizio mi è piaciuto molto nel ruolo di Cyrano, perché è riuscito a conferire al personaggio una vena triste e ironica allo stesso tempo. La recitazione in versi, le coloriture dialettali, l'animo di perdente sono note di merito di un'interpretazione davvero di qualità, molto diversa da quella cinematografica che calcava l'accento su altri toni e sfumature. Qui Cyrano non ci indispone, bensì ci fa tenerezza; non troneggia nei duelli fisici e verbali, bensì ci arriva quasi in sordina.
Personalmente, non ho invece del tutto apprezzato la scelta dei comprimari, personaggi importanti, come l'amata Rossana (Viola Pornaro) e il giovane Cristiano (Luca Bastianello), che ho trovato sia fisicamente che teatralmente non del tutto all'altezza del personaggio centrale. Ma forse l'inevitabile destino di una storia come quella di Cyrano è proprio quello di far emergere la solitudine del suo eroe/antieroe. Del resto, altrettanto accadeva nel film, in cui - se proprio devo dire la verità - non ricordo nemmeno il volto degli altri attori, oscurati da "cotanta magnificenza"!
Voto: 3,5/5
L'allestimento teatrale è interessante e devo dire che - da profana quale sono - Massimo Popolizio mi è piaciuto molto nel ruolo di Cyrano, perché è riuscito a conferire al personaggio una vena triste e ironica allo stesso tempo. La recitazione in versi, le coloriture dialettali, l'animo di perdente sono note di merito di un'interpretazione davvero di qualità, molto diversa da quella cinematografica che calcava l'accento su altri toni e sfumature. Qui Cyrano non ci indispone, bensì ci fa tenerezza; non troneggia nei duelli fisici e verbali, bensì ci arriva quasi in sordina.
Personalmente, non ho invece del tutto apprezzato la scelta dei comprimari, personaggi importanti, come l'amata Rossana (Viola Pornaro) e il giovane Cristiano (Luca Bastianello), che ho trovato sia fisicamente che teatralmente non del tutto all'altezza del personaggio centrale. Ma forse l'inevitabile destino di una storia come quella di Cyrano è proprio quello di far emergere la solitudine del suo eroe/antieroe. Del resto, altrettanto accadeva nel film, in cui - se proprio devo dire la verità - non ricordo nemmeno il volto degli altri attori, oscurati da "cotanta magnificenza"!
Voto: 3,5/5
domenica 4 ottobre 2009
Basta che funzioni
Sono andata a vedere l’ultimo film di Woody Allen (Whatever works), animata da belle speranze perché le recensioni ne parlano in termini estremamente positivi e la maggior parte degli amici che l’avevano già visto me l’avevano caldamente consigliato, dicendomi che si tratta di un ritorno di Allen alle origini e quindi al meglio delle sue capacità espressive.
Ebbene, dopo aver visto il film, ho avuto la conferma che il Woody Allen classico non mi entusiasma, tanto che avevo invece decisamente apprezzato un film completamente estraneo (nelle atmosfere e nei toni) alla sua vena più tradizionale, Matchpoint. Da un punto di vista concettuale, mi pare che continui la riflessione di un Woody Allen ormai incamminatosi sulla strada della vecchiaia in merito al ruolo del caso e della fortuna rispetto al corso della nostra vita. Non importa quanto possiamo analizzare le nostre esistenze e capire di noi stessi, alla fine è la fatalità che determina gli eventi più importanti e il loro andamento.
Certo, questo film si caratterizza per un approccio che – per quanto possibile in riferimento a Woody Allen – appare più ottimista e quasi buonista, in quanto il messaggio del film è pienamente racchiuso nel suo titolo. Visto che per quanto possiamo affidarci nelle nostre scelte alla razionalità questo non ci garantisce la felicità, allora lasciamoci andare alla casualità e cerchiamo di vivere positivamente tutto quello che funziona. Il messaggio è affidato al suo alter ego nel film, Boris Yelnikoff (Larry David), personaggio inevitabilmente caratterizzato da un cinismo e da un sarcasmo che solo Allen può concepire. Purtroppo, personalmente non riesco a superare il fastidio quasi fisico che un personaggio ipocondriaco, logorroico e intollerante come questo mi suscita. Indubbiamente la sceneggiatura è brillante e in diversi momenti riesce a strappare una risata, e gli altri personaggi, la giovane moglie del protagonista (la brava Evan Rachel Wood) e soprattutto i due genitori di questa, sono azzeccati e giustamente essenziali al quadro d'insieme.
L’ambientazione newyorkese è gradevole, la trovata – non proprio nuova – di rivolgersi agli spettatori attraverso la macchina da presa certamente movimenta l'azione, ma al contempo accentua la componente didascalica del film. All'uscita dalla sala non mi ha abbandonato la sensazione che si tratti dell’ennesimo compitino a casa di Allen, con una tesi tutto sommato semplice e semplicistica da dimostrare, e senza veri guizzi di genialità.
In fondo lo dice sempre anche una mia amica che trovare la persona con cui si sta bene è per gran parte questione di fortuna (lei usa un termine diverso!!), combinazione di una serie di coincidenze che al calcolo delle probabilità farebbe venire il panico. Ma lo stesso Allen aggiunge che tutto è transitorio e che, appunto, finché funziona, meglio godersi quello che si sta vivendo e non farsi ingabbiare dalle sovrastrutture che la nostra educazione e società spesso ci impongono.
Insomma, bella scoperta! Sono migliaia di anni che filosofi e pensatori lo ripetono… E poi, mi chiedo, non sarà che a volte il caso non è così casuale, come dice Robert H. Hopcke nel suo ultimo libro Nulla succede per caso?
In conclusione, film gradevole da vedere, ma senza menzioni speciali.
Voto: 2,5/5
Ebbene, dopo aver visto il film, ho avuto la conferma che il Woody Allen classico non mi entusiasma, tanto che avevo invece decisamente apprezzato un film completamente estraneo (nelle atmosfere e nei toni) alla sua vena più tradizionale, Matchpoint. Da un punto di vista concettuale, mi pare che continui la riflessione di un Woody Allen ormai incamminatosi sulla strada della vecchiaia in merito al ruolo del caso e della fortuna rispetto al corso della nostra vita. Non importa quanto possiamo analizzare le nostre esistenze e capire di noi stessi, alla fine è la fatalità che determina gli eventi più importanti e il loro andamento.
Certo, questo film si caratterizza per un approccio che – per quanto possibile in riferimento a Woody Allen – appare più ottimista e quasi buonista, in quanto il messaggio del film è pienamente racchiuso nel suo titolo. Visto che per quanto possiamo affidarci nelle nostre scelte alla razionalità questo non ci garantisce la felicità, allora lasciamoci andare alla casualità e cerchiamo di vivere positivamente tutto quello che funziona. Il messaggio è affidato al suo alter ego nel film, Boris Yelnikoff (Larry David), personaggio inevitabilmente caratterizzato da un cinismo e da un sarcasmo che solo Allen può concepire. Purtroppo, personalmente non riesco a superare il fastidio quasi fisico che un personaggio ipocondriaco, logorroico e intollerante come questo mi suscita. Indubbiamente la sceneggiatura è brillante e in diversi momenti riesce a strappare una risata, e gli altri personaggi, la giovane moglie del protagonista (la brava Evan Rachel Wood) e soprattutto i due genitori di questa, sono azzeccati e giustamente essenziali al quadro d'insieme.
L’ambientazione newyorkese è gradevole, la trovata – non proprio nuova – di rivolgersi agli spettatori attraverso la macchina da presa certamente movimenta l'azione, ma al contempo accentua la componente didascalica del film. All'uscita dalla sala non mi ha abbandonato la sensazione che si tratti dell’ennesimo compitino a casa di Allen, con una tesi tutto sommato semplice e semplicistica da dimostrare, e senza veri guizzi di genialità.
In fondo lo dice sempre anche una mia amica che trovare la persona con cui si sta bene è per gran parte questione di fortuna (lei usa un termine diverso!!), combinazione di una serie di coincidenze che al calcolo delle probabilità farebbe venire il panico. Ma lo stesso Allen aggiunge che tutto è transitorio e che, appunto, finché funziona, meglio godersi quello che si sta vivendo e non farsi ingabbiare dalle sovrastrutture che la nostra educazione e società spesso ci impongono.
Insomma, bella scoperta! Sono migliaia di anni che filosofi e pensatori lo ripetono… E poi, mi chiedo, non sarà che a volte il caso non è così casuale, come dice Robert H. Hopcke nel suo ultimo libro Nulla succede per caso?
In conclusione, film gradevole da vedere, ma senza menzioni speciali.
Voto: 2,5/5