Sabotaggio d'amore / Amélie Nothomb; trad. di A. Galli. Parma, Guanda, 2001.
Amélie Nothomb è una scrittrice nei confronti della quale nutro uno strano sentimento di amore/odio che a volte mi tiene lontana dai suoi libri, altre volte me li fa amare follemente (d'altra parte basta leggere le recensioni dei lettori ai suoi libri per capire che non sono l'unica...).
Il suo cinismo senza mezzi termini, il suo spirito corrosivo della realtà, la sua sensibilità sarcastica a volte mi risultano disturbanti rispetto al tentativo di preservare un piccolo spazio di ingenuità nella mia mente.
In questo caso, però, il racconto e la scrittura mi hanno completamente conquistata. Storia e riflessioni sono di una profondità e, al contempo, di una semplicità sconvolgente. Leggere questo libro è come incontrare delle verità che abbiamo sempre avuto dentro, ma che solo in alcune circostanze, come ad esempio quando uno scrittore le fa emergere dal profondo, ci risultano lampanti e a quel punto quasi banali.
La piccola protagonista di questa storia, che si svolge nel quartiere abitato dai diplomatici occidentali a Pechino nei primi anni Settanta, è un viaggio alla scoperta della Cina, del rapporto Oriente/Occidente, della dinamica adulto/bambino, del senso della guerra e della pace, della natura - a volte malata - dell'amore.
Entrare nella testa e nel corpo di questa bimba di sette anni, dotata di straordinaria creatività e intelligenza, alle prese con le prime sconvolgenti esperienze affettive, è una vera e propria seduta psicanalitica, durante la quale si soffre, si capisce, si ride, si impara, si sente. E così sentiamo la protagonista dire cose tipo:
"Il solo modo per smettere di soffrire è avere la testa completamente vuota. Il solo modo di vuotarsi completamente la testa è andare più velocemente possibile [...]" (p. 44)
"[...] penso che la bella Elena se ne fregasse della guerra di Troia, a un punto difficilmente concepibile. Non penso che ne ricavasse motivo di orgoglio: sarebbe stato fare troppo onore agli eserciti umani.
Penso che lei restasse infinitamente al di sopra di quella storia e che continuasse a guardarsi negli specchi.
Penso che avesse bisogno di essere guardata - e poco le importava che fossero sguardi di guerrieri o di pacificatori: dagli sguardi lei si aspettava che parlassero di lei, solo di lei, e non di quelli che glieli rivolgevano.
Penso che avesse bisogno di essere amata. Di amare no: non era nella sua natura. A ciascuno la sua specialità." (p. 11)
"[...] ogni eroe trova nel campo avverso il suo nemico designato, mitico, quello che lo tallonerà finché non l'abbia distrutto. E viceversa. Ma questa non è la guerra: è l'amore, con tutto l'orgoglio e l'individualismo che presuppone." (p. 113)
"Gli errori sono come l'alcol: ci si rende conto subito di aver ecceduto, ma piuttosto che avere l'accortezza di smettere per limitare i danni, una sorta di rabbia la cui origine è estranea all'ubriachezza obbliga a continuare. Questo furore, per quanto strano possa sembrare, potrebbe definirsi orgoglio: orgoglio di reclamare che, contro ogni logica, si aveva ragione a bere e a sbagliarsi. Persistere nell'errore o nell'alcol acquista allora il valore di argomento, di sfida alla logica: se mi ostino, vuol dire che ho ragione, checché se ne possa pensare. E mi ostinerò fino a che gli elementi non mi daranno ragione: diventerò alcolizzata, prenderò la tessera del partito del mio errore, nell'attesa di scivolare sotto il tavolo o di essere ignorata da tutti, con la vaga speranza aggressiva di far ridere il mondo intero, convinta che fra dieci anni, dieci secoli, il tempo, la Storia o la Leggenda finiranno per darmi ragione, il che del resto non avrà più alcun senso, visto che il tempo riscatta tutto, visto che ogni errore e ogni difetto ha il suo momento d'oro, visto che sbagliare è comunque sempre una questione di epoca." (p. 119)
Nella guerra d'amore che lei combatte, ignara delle motivazioni e delle conseguenze, vediamo quanto possano essere accecanti i sentimenti al punto da occultarci anche l'ovvio e l'evidente. Soffriamo, e al contempo ridiamo, di un esito scontato fin dal principio e riconosciamo dinamiche affettive che ci sono familiari.
Alla fine, ci intristisce il fatto che il passaggio all'età adulta si configuri come lo svelamento di una natura maligna (ma a quel punto priva di poesia) che forse da sempre ci portiamo dentro.
È questo pessimismo che ci scuote dentro e che non vogliamo accettare.
Si può essere cinici senza essere pessimisti? Si può essere realisti continuando a credere in qualcosa? Si può amare ancora dopo aver svelato la natura profondamente egoistica e individualistica di certi rapporti amorosi?
Voto: 4,5/5
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