Fred Vargas, Sotto i venti di Nettuno. 2° ed. Torino, Einaudi, 2008
Ho amato questo romanzo della Vargas quasi quanto il mio preferito Parti in fretta e non tornare.
Mi è piaciuta innanzitutto l'ambientazione, a cavallo tra la Francia e il Canada, e il confronto tra l'atteggiamento mentale e culturale dei francesi di Francia e i quebecchesi di lingua francese, con tutte le difficoltà che il traduttore della Vargas deve aver incontrato per rendere in italiano le differenze linguistiche tra questi due gruppi e il portato culturale che queste differenze comportano.
Ho amato i personaggi, la grandezza del tenente Violette Retancourt, la bontà dell'agente quebecchese Sanscartier, e su tutti il confronto a distanza tra il fedele vice Adrien Danglard e il suo commissario Jean-Baptiste Adamsberg.
Due personaggi che nella loro diversità fanno scintille, ma rappresentano, al contempo, le due facce, inscindibili, della stessa medaglia: il logico e colto Danglard e lo “spalatore di nuvole” Adamsberg.
Ma soprattutto mi ha toccato profondamente questo caso che vede Adamsberg a confronto principalmente con se stesso, con i suoi fantasmi, con i suoi demoni interiori, con i suoi pregiudizi e le sue paure.
Di solito il commissario è un personaggio che sento distante da me per la sua tendenza ad affidarsi non alla logica, ma all'intuizione, alla divagazione mentale, ai collegamenti arditi, alla meditazione apparentemente priva di senso, all'ozio creativo. Adamsberg è l'uomo dei tempi lunghi, delle lunghe pause, dei distacchi e dell'indifferenza, dell'almeno appartente assenza di emozioni.
E invece per una volta il nostro commissario si ritrova in balia dei suoi pensieri ossessivi, incapace di comprendere e accettare le verità più semplici, in preda a reazioni istintive e incontrollate, affondato in una melma immobile che si nasconde sotto la superficie tranquilla delle acque del lago.
E questo Adamsberg vulnerabile, senza pelle, capace di ammettere almeno la possibilità dell'errore, inconsapevolmente geloso della donna che lui stesso ha lasciato, lo sento così vicino e profondamente affine a me, in particolare in questa fase della mia vita in cui certe volte ho la sensazione che tutto irrimediabilmente mi sfugga di mano.
La Vargas dissemina il romanzo di metafore e riflessioni davvero illuminanti che io, come il confuso Adamsberg, cerco di afferrare e di non farmi scivolare tra le dita.
E così non posso non apprezzare dialoghi come questo:
«- Perché cerca quel passaggio se è stato lei stesso a chiuderlo?
- Non lo so. Forse perché da lì viene l'aria, e senza aria si rischia l'asfissia o l'esplosione.»
E quanto è bella la metafora del giaccone reversibile che è davvero come la vita: «Dal lato nero sei ben riparato, e la neve e l'acqua ti colano addosso senza che te ne accorgi. E dal lato azzurro ti vedono bene sulla neve ma non è impermeabile. Ti puoi bagnare. Allora a seconda dell'umore, certo momento lo metti in un senso, certo momento lo metti in un altro.»
Come Adamsberg, trovo difficile in questo momento fare i conti con i miei pensieri e ho bisogno di trovare dei punti di riferimento stabili che mi permettano di sorreggermi:
«Uno crede che i propri pensieri sbiadiscano e invece sono piantati lì, in piena fronte, in tre fori allineati.»
«Penso che anche se uno è perso deve trovarsi un posto suo. Io ho scelto questa pietra.»
Perché i gialli della Vargas sono così: con la scusa di un caso di polizia sono lezioni di vita, viaggi interiori e occasioni di riflessione cui non è possibile sottrarsi.
Voto: 4/5
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