Sarò certamente in controtendenza (ma quando mai non lo sono?!?); d’altra parte, pur apprezzando le molte qualità dell’ultimo film di Clint Eastwood la sensazione che ne ricavo è molto simile a quella che ho provato di fronte a Million dollar baby e a numerosi altri film del grande vecchio americano: un impianto narrativo meccanico, in cui tutto si sviluppa secondo un ordito ben preciso e preordinato e dove anche il colpo di scena è in buona misura prevedibile. Una specie di apologo dai risvolti volutamente didascalici e il cui impianto è costruito talmente bene da implicare inevitabilmente per lo spettatore il sorriso, la tenerezza, la risata, la commozione.
Ed è per questo che dopo aver visto i film di Clint Eastwood esco sempre dalla sala con un senso di parziale delusione e quasi frustrazione, perché mi sarei aspettata una sfida emotiva e intellettuale e invece tutto mi viene presentato in maniera assolutamente piana e comprensibile. Ed è questo contrasto tra il mondo cinematografico eastwoodiano nel quale non tutto è perfetto (anzi, non mancano la violenza e i cattivi sentimenti), ma tutto è fondamentalmente chiaro e senza particolari sfumature, e il mondo reale, in cui niente è come sembra, tutto è sfumato, nessuno è univocamente interpretabile, che mi indispone.
Ciò detto, la storia che Clint racconta in questo film è interessante e apprezzabile ed è soprattutto l’anziano Clint attore, con le smorfie del suo viso, la sua pelle rugosa, il suo linguaggio colorito, a dare spessore e valore al film.
Il vecchio Walt è un reduce della guerra di Corea che si porta dentro una ferita lacerante e che poco si trova a suo agio in un’America profondamente mutata, nei costumi, nella composizione etnica, nei valori, negli stili di vita. Walt, che ha da poco perso sua moglie e non ha nulla in comune con quella media borghesia insignificante che i suoi figli rappresentano, convive a fatica con i vicini asiatici e in generale gli immigrati di ultima generazione (lui che a sua volta con un cognome come Kowalski è certamente figlio del melting pot americano e grande amico di un barbiere di origine italiana).
La sua Gran Torino, un modello sportivo della Ford anni ’70, resta per lui l’emblema del tempo che fu, intoccabile, perfetta, curata e preservata fino a individuare qualcuno che sia sufficientemente degno di questa eredità.
Sarà infine proprio il suo vicino asiatico, il giovane Tao (Bee Vang), a dargli la possibilità del riscatto della sua vita e di un’America ancora capace di rinascere dalle sue ceneri.
È inevitabile il collegamento mentale con il film dei fratelli Coen, Non è un paese per vecchi, che portava benissimo sullo schermo la disillusione e l’approccio conservatore del romanzo di Cormack McCarthy. Anche lì lo sguardo di un vecchio americano conservatore non può che portare alla luce l’immagine di un’America il cui tessuto sociale è disgregato, in cui la conflittualità etnica - e non solo - è ai massimi livelli, in cui i valori morali si sono dissolti e il male regna sovrano.
La differenza sta nella prospettiva: assente nel film dei Coen, totalmente ripiegato su un pessimismo senza vie d’uscita; possibile – sebbene a caro prezzo – nel film di Eastwood attraverso la comprensione dell’universale principio che violenza genera violenza e, in un mondo privo di regole, anche la violenza finisce per essere incontrollata e incontrollabile.
Eppure, anche in questo caso, per quanto catartico e liberatorio sia il finale eastwoodiano, finisco per preferire l’irrisolutezza e la mancanza di redenzione dell’approccio di McCarthy; preferisco un cattivo che quasi ci affascina agli odiosi bulletti di periferia, preferisco la morte insensata a quella sacrificale. Perché ci piacerebbe che la vita ci offrisse sempre la possibilità di un riscatto, ma ho la sensazione che il non senso sia spesso la più forte chiave interpretativa della realtà.
Voto: 3,5/5
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