Inshallah A Boy è il film del regista giordano Amjad Al Rasheed, primo film giordano ad essere selezionato in concorso per il Festival di Cannes, che racconta la storia di Nawal (Mouna Hawa), una giovane donna musulmana che ha una figlia di 6-7 anni e sta cercando di avere un altro figlio con suo marito. Purtroppo il marito muore improvvisamente nel sonno, e Nawal si trova a fare i conti non solo con le strette regole sul lutto femminile, ma anche con una serie di problemi economici e di scoperte sorprendenti sul marito di cui non sospettava praticamente nulla.
Di fronte alle richieste sempre più insistenti del cognato, che approfitta del fatto che Nawal si è sempre fidata del marito rispetto alla gestione degli aspetti economici e ora si trova a doverne ripagare dei debiti e anche non riconosciuta nella proprietà della casa, la donna decide di non arrendersi alla situazione e resistere con tutte le sue forze. Sa che la sua unica via d'uscita, almeno sul breve termine, è essere incinta, e, sul medio termine, avere un figlio maschio, e Nawal è disposta a inseguire questo obiettivo anche con mezzi poco leciti, ma soprattutto a crederci con tutte le sue forze.
Il film di Al Rasheed, purtroppo visto doppiato (che ormai sta diventando per me una vera sofferenza, soprattutto per i film recitati in arabo), è tecnicamente un dramedy, ma la confezione serve solo a non caricare di ulteriori elementi melodrammatici e tragici una storia e una realtà pesantissimi di per sé.
Durante tutta la visione del film non si può infatti che provare angoscia per la posizione in cui si viene a trovare questa donna (e con lei tutte le donne che vivono in contesti similari), costretta non solo a lottare per la propria sopravvivenza, pur essendo la moglie legittima dell'uomo deceduto, ma persino per la custodia della propria figlia che può esserle sottratta con molta facilità. Gli uomini che popolano questo mondo fortemente patriarcale e in cui forti sono i condizionamenti religiosi oscillano tra l'inerte e l'aggressivo, ma in ogni caso sembrano non rendersi conto neppure lontanamente dell'ingiustizia profonda della situazione.
La cosa ancora più triste è che di fronte alla situazione di Nawal non scatta nemmeno alcuna solidarietà femminile, un po' forse per assuefazione a uno stato di cose considerato normale e di cui non si vede un'alternativa, un po' perché ciascuna donna è in un certo senso impegnata a combattere la sua personale battaglia di sopravvivenza in una società siffatta.
Si esce piuttosto depresse, sentendosi fortunate ad essere nate in un'altra parte del mondo dove almeno alcune cose sono state superate da tempo e interrogandosi su quale speranza ci possa essere che in alcuni paesi la situazione femminile possa migliorare e con quali tempi.
Voto: 3,5/5
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