Lucas (Elliott Crosset Hove) è un giovane prete protestante danese che alla fine dell'Ottocento viene mandato in Islanda per costruire una chiesa nei fiordi orientali, allo scopo non solo di evangelizzare ma anche di conoscere la comunità locale e inserirsi al suo interno.
La prima parte del film di Pálmason racconta del lungo viaggio verso la destinazione, prima per mare e poi per terra, con una carovana di cavalli guidati da un mandriano islandese di nome Ragnar (il sempre bravo Ingvar Eggert Sigurðsson, visto già in A white white day), mentre la seconda parte si concentra sulla costruzione della chiesa e la relazione con la comunità locale.
Alla base di tutto c'è la difficilissima relazione tra islandesi e danesi, tant'è che il film è recitato nelle due lingue, usate spesso in veri e propri duelli verbali, in cui ciascuno utilizza orgogliosamente la propria lingua come elemento identitario e consapevole del fatto di rendere la comprensione impossibile. Anche il titolo è in entrambe le lingue (Vanskabte Land in danese, e Volaða land), e il suo significato non corrisponde al titolo internazionale, in quanto la traduzione è "terra deformata", che certamente meglio si adatta al punto di vista del protagonista verso l'Islanda.
Certamente è importante sapere che l'Islanda è vissuta sotto il dominio danese dal 1397 fino al 1944, anno in cui, dopo un referendum che votò a favore della secessione, il Parlamento islandese proclamò finalmente la repubblica. Furono i danesi a imporre la Riforma protestante in Islanda nel XVI secolo, sebbene la popolazione fosse fino a quel momento prevalentemente cattolica. La somma delle confische e dei saccheggi operati dai danesi - e in generale dagli stranieri - e delle difficilissime condizioni climatiche e ambientali fecero sì che a più riprese la popolazione islandese dovesse affrontare carestie e povertà estrema e si decimasse. Per tutti questi motivi il dominio danese e il tentativo di colonizzazione sono ancora oggi una ferita aperta per gli islandesi.
Senza queste premesse è difficile, o comunque meno agevole, cogliere appieno lo spirito e il senso del film di Pálmason, che prende spunto dal presunto ritrovamento, nelle province orientali dell'Islanda, di alcune fotografie al collodio accanto al cadavere di un prete. Il prete danese protagonista del film si mette infatti in viaggio con tutta la sua pesante attrezzatura fotografica e i suoi libri e decide di approdare in nave lontano dal luogo dove costruirà la chiesa, perché vuole conoscere l'Islanda e il suo popolo - o almeno questo dice a chi glielo chiede. In realtà Lucas dimostra fin dal principio di essere uno strano mix di ingenuità e senso di superiorità, che farà sì che egli rimanga sempre un corpo estraneo rispetto all'Islanda e agli islandesi, e persino ai suoi stessi connazionali trapiantati in Islanda: osserva e fotografa ma non comprende, vuole piegare la natura alla sua volontà ma ne risulterà piegato lui stesso fino quasi a morirne, si sente superiore culturalmente e moralmente (entrando in conflitto in primis con Ragnar, personificazione del modo di essere islandese, a sua volta testardo e oppositivo), ma finirà per dimostrarsi non dissimile dagli altri esseri umani, islandesi o danesi che siano, in termini di istinti, sentimenti ed emozioni. E in fondo non dissimile da tutti gli altri esseri viventi che - nessuno escluso - in Islanda sono alla mercé di una natura soverchiante e tutto sommato indifferente ai loro dolori, amori, conflitti, passioni, violenze, e che risponde invece solo al trascorrere del tempo e al susseguirsi inesorabile delle stagioni, che tutto ingloba e assorbe nel ventre della terra, come i timelapse con telecamera fissa attraverso le stagioni portano all'evidenza.
Dentro un formato quasi quadrato (con rapporto 1.37:1, il formato cosiddetto Academy) con i bordi gentilmente arrotondati e attraverso una scelta di colori che proprio alle fotografie al collodio di fine ottocento si ispira, la natura islandese - sempre maestosa - risulta più claustrofobica che estetizzante, così come le persone appaiono chiuse nella loro incapacità di comunicare. È il movimento circolare a 360° della telecamera oppure i suoi spostamenti dal paesaggio al dettaglio che restituisce ampiezza alle immagini (si veda la ripresa dalle montagne attraverso l'erba fino al volto morente di Lucas che segna lo stacco tra la prima e la seconda parte del film, o anche la scena del ballo al matrimonio), sebbene il regista lo faccia con una lentezza a volte esasperante, quasi a fare da contrasto con i timelapse della parte finale del film (che sia anche un modo di far emergere la relatività del tempo, e la abissale differenza percettiva tra il tempo umano e quello della terra?).
Un'ultima notazione: mi ha colpito moltissimo la centralità che nel film hanno i cavalli, con i quali gli islandesi sembrano avere un rapporto quasi viscerale, elementi insostituibili del paesaggio islandese, compagni di lavoro, di fatica e di viaggio indispensabili per sopravvivere in una terra tanto ostile, e da cui non separarsi mai, perché loro sì che sono capaci di sopravvivere adattandosi. Non a caso Ragnar è un mandriano, il traduttore muore nel fiume perché non si tiene stretto al suo cavallo, il padre del venditore di fieno che la carovana incontra per strada è ossessionato dall'idea che i cavalli non sono in vendita, ogni persona sembra avere il suo cavallo, compresi i componenti della famiglia di danesi presso cui viene costruita la chiesa. Lucas in fondo è l'unico che dimostra fin dal principio di non avere dimistichezza con i cavalli e di non essere in grado di gestirli, segno inequivocabile della sua estraneità al contesto.
Voto: 3,5/5
Ottima recensione, visto a Torino al Festival, e anch'io dopo il film sono andata a cercare informazioni storiche che nel film si sottindendono ma non vengono discusse se non tramite dialoghi e rapporti difficilissimi che il film mostra. Un lungo ed estenuante viaggio, noi lo facciamo con loro, perché ho percepito tutta la sfiancante attraversata attraverso quella terra meravigliosa. Ma sapevo a cosa andavo incontro avendo già visto il suo precedente film che se non mi sbaglio avevi anche recensito. Paesaggi mozzafiato, fotografia eccezionale, già presentato fuori concorso a Cannes, non un film per tutti, devi veramente avere voglia di intraprendere questo viaggio con fatica ma ne vale la pena, film per certi versi davvero affascinante. Anche le riprese non credo siano state facilissime.
RispondiEliminaAvevamo parlato del film di Bastien Vives che purtroppo nonostante le grandi aspettative di tutti non ha portato a casa neanche un premio, spero esca anche quello in sala, un gioiello.
Grazie Lory! Bellissima riflessione anche la tua. Non avevo effettivamente focalizzato che la sensazione estenuante nella visione crea immedesimazione con il viaggio estenuante di Lucas attraverso questo paese bello e ostile.
EliminaPer Vives che peccato che non abbia vinto nemmeno un premio! Lo aspettiamo in sala! Speriamo!