Dopo la visione de Il gioco del destino e della fantasia non potevo non andare a vedere l'ultimo film di Hamaguchi Ryusuke, Drive my car, con cui il regista giapponese ha conquistato il premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes.
Questa volta arrivavo in sala preparata a un film fatto di molte parole e molti silenzi, ed ero pronta ad affrontare le quasi tre ore di visione, delle quali quasi tre quarti d'ora costituiscono una specie di prologo al termine del quale partono finalmente i titoli di testa (e solo a quel punto lo spettatore si accorge di non averli ancora visti passare).
Tratto da un racconto di Murakami Haruki presente nella raccolta Uomini senza donne, il film racconta la storia di Yûsuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), regista e attore prima di televisione e poi di teatro. Il lungo prologo ci racconta la sua vita di coppia, e come - dopo un grave lutto che li unisce - lui e sua moglie si "incontrano" in quel tempo indefinito che sta tra il giorno e la notte, o tra la notte e il giorno, tempo spesso di amplessi sessuali ma soprattutto tempo in cui sua moglie racconta frammenti di storie che poi alla luce del giorno dimentica, ma di cui Kafuku tiene memoria, consentendole di trasformarle in sceneggiature di successo. Un evento inatteso incrina il rapporto di fiducia tra i due, ma la morte improvvisa di lei chiude in una cassaforte inespugnabile tutti i sentimenti incerti di Kafuku.
Qui comincia il film di Hamaguchi. Due anni dopo la morte della moglie, Kafuku accetta un invito a tenere un laboratorio teatrale a Hiroshima per poi mettere in scena Lo zio Vanja di Checov, pièce cui Kafuku è particolarmente legato e la cui registrazione fatta da sua moglie ascolta in macchina per memorizzare le battute.
L'abitacolo della sua SAAB 900 rossa fiammante diventa così il confine e la metafora di un mondo interiore inceppato su un lutto mai elaborato, e totalmente impermeabile al mondo esterno. Kafuku vive delle parole di Checov lette dalla moglie, ma non ascolta il mondo intorno, condizione che si concretizza nella scelta di mettere in scena spettacoli in cui gli attori parlano lingue diverse e dunque non si comprendono reciprocamente.
A Hiroshima però Kafuku deve accettare suo malgrado l'autista che la produzione dello spettacolo gli impone: si tratta di una giovane di umili origini, Misaki (Toko Miura), dalla presenza sobria e discreta, che guida l'auto in modo mirabile.
Mentre Kafuku inizia il laboratorio di teatro e fa avanti e indietro dalla sua residenza al luogo delle prove, Misaki è spettatrice silente ma partecipe. La presenza di Misaki innesca a poco a poco un processo di disgelo nel cuore di Kafuku, processo che passa anche attraverso dei momenti particolarmente intensi nella preparazione dello spettacolo. I due "si rispecchiano", riconoscendo ciascuno il dolore e il senso di colpa dell'altro, che grazie al lungo viaggio in macchina verso l'Hokkaido, il luogo di origine di Misaki, troveranno finalmente espressione, e dunque anche la possibilità di essere superati per ricominciare ciascuno la propria vita. E parallelamente anche lo spettacolo teatrale andrà in scena, segnando il passaggio dal rancore alla speranza.
Nel film di Hamaguchi ci sono tantissime chiavi di lettura, molte probabilmente sfuggono a chi - come me - non riesce a cogliere i suoi riferimenti cinematografici e in generale intellettuali. Certamente il suo cinema è espressione di quella che il regista considera una caratteristica della società giapponese e dei suoi individui: la spaccatura profonda tra i sentimenti che si muovono all'interno dei personaggi - potenti ed estremi come sono quelli di tutti gli esseri umani - e l'immagine esteriore sempre improntata alla massima compostezza e a un autocontrollo esasperato, che a tratti appare quasi disumano.
È solo nella ricomposizione di queste due dimensioni - che poi in fondo era l'oggetto anche dei tre episodi del film precedente - che ciascuno trova la propria personale redenzione.
Sicuramente un film stratificato e complesso, che richiede molta pazienza e attenzione, ma che tanto ci dice non solo del suo regista e sceneggiatore, ma anche del mondo giapponese.
Io nella cinematografia giapponese contemporanea continuo a preferire il linguaggio e lo stile di Kore-Eda Hirokazu, ma il mio interesse per la cultura giapponese mi spinge ad approfondirne tutte le espressioni e devo riconoscere che Hamaguchi è un maestro da osservare con attenzione.
Voto: 3,5/5
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