Da quando anni fa io e F. abbiamo scoperto Annibale Ruccello e la nuova drammaturgia napoletana, abbiamo cercato di recuperare quanto più ci è stato possibile, compatibilmente con l'offerta teatrale romana.
La conoscenza di Ruccello e delle sue opere ci ha portate dritte dritte a un altro grande autore, anzi il capofila del nuovo teatro napoletano, Enzo Moscato.
Grazie a questi due mostri sacri, il primo morto troppo giovane, in un incidente stradale a 30 anni, il secondo ancora in attività, abbiamo imparato a esplorare e apprezzare il teatro napoletano contemporaneo nelle sue diverse declinazioni, passando per alcune opere di Giuseppe Patroni Griffi fino ad arrivare a Manlio Santanelli.
E così ora come ora non appena leggiamo uno di questi nomi nei cartelloni dei teatri romani cerchiamo di non mancare all'appuntamento. Come potevamo dunque perdere Compleanno, il testo scritto da Enzo Moscato pochi mesi dopo la morte di Ruccello, e messo in scena la prima volta nel 1992?
La presenza nel pubblico di Giorgio Barberio Corsetti, già direttore del Teatro di Roma, è un'ulteriore conferma del fatto che Compleanno è uno spettacolo da non perdere.
Si tratta sostanzialmente di un monologo, preceduto però da una breve introduzione recitata da un giovane - forse il fantasma di Ruccello? - che riflette sulla morte e su cosa significa morire giovani.
La scenografia è fatta di una sedia vuota ricoperta di veli rossi e di un banchetto decorato in maniera kitsch. Il giovane che introduce la pièce lascia sparse sul palco cinque rose, che richiamano immediatamente una delle opere più famose di Ruccello (Le cinque rose di Jennifer). Da dietro le quinte arriva Moscato, con una maglietta con la scritta "Life's a bitch and then you die" e una torta con le candeline in mano.
Siamo - come spesso nella nuova drammaturgia partenopea - in un qualche basso napoletano, tra trans e femminielli, quel mondo dolente ed emarginato, ma anche ricco di umanità e ironia, tanto amato da Ruccello e Moscato. Si prepara una festa di compleanno in absentia e questi preparativi sono accompagnati da un flusso di parole, in lingue diverse, inframmezzate da spezzoni di canzoni (Suzanne Vega, i Gipsy King, Donatella Rettore), e tutto questo si trasforma a tratti in cantilena o in filastrocca, attraverso la ripetizione quasi ossessiva.
Dietro queste parole e la loro solo apparente leggerezza in alcuni passaggi si percepisce dal principio alla fine un dolore con cui non si riesce a fare i conti e che solo per poco non si trasforma in dramma autoinflitto. Un dolore che alla fine si trasforma in commozione, non solo per l'artista sul palco ma anche per un pubblico che sente una presenza forte anche lì dove la persona non c'è fisicamente.
Il lungo applauso finale è liberatorio, e non è solo un riconoscimento della bravura di Moscato, ma anche un rito collettivo di elaborazione di un lutto che si fa fatica ad accettare e anche di una vita che - come dice il giovane nel prologo - più è lunga e più ti mette di fronte alla perdita e all'inevitabile declino, in un paradosso insolubile proprio dell'essere umano in quanto essere cosciente di sé stesso.
Voto: 4/5
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