Il colibrì / Sandro Veronesi. Milano: La nave di Teseo, 2019.
Non avevo mai letto nulla di Sandro Veronesi, ma dopo il suggerimento entusiastico del mio amico M. e la lettura di recensioni altrettanto entusiastiche (anche da parte di personaggi significativi del mondo intellettuale italiano) ho deciso di avvicinarmi al suo ultimo romanzo, Il colibrì, candidato al Premio Strega 2020.
La storia è quella di Marco Carrera, un uomo di cui il narratore ricostruisce la vita andando avanti e indietro nel tempo dall’infanzia fino alla morte, e affidando in parte questo racconto alle parole dello stesso protagonista, sia attraverso le lettere ch’egli scrive alla donna amata, Luisa Lattes, che al fratello Giacomo, sia attraverso i dialoghi con gli altri personaggi, in particolare lo psicoterapeuta Carradori.
L’arco temporale in cui si sviluppa il racconto va dagli anni Settanta fino a oltre il 2030, ma – come già detto – il racconto non è lineare, bensì - mescolando le vicende e le testimonianze - l’autore trasforma la vita di Carrera quasi in un “piccolo giallo” di cui siamo chiamati a riconoscere i momenti topici e gli snodi principali, nonché a intuire gli eventi connettendo i pezzi del racconto.
Questa storia individuale è costellata di molti dolori e perdite, ma il protagonista dimostra ogni volta una resilienza che gli permette di non crollare, fino a individuare nella sua nipotina Miraijin (letteralmente “uomo nuovo”) il vero scopo della sua vita, l’eredità genetica da tramandare a un futuro in cui le nuove generazioni sapranno superare i limiti del passato e portare a compimento le promesse mancate.
Che dire? Dal punto di vista narrativo la figura di Marco Carrera e il suo modo di interpretare la vita e di darle un significato cercandone uno scopo futuro attraverso la propria eredità genetica è quanto di più lontano ci sia dalla mia visione dell’esistenza, e quindi personalmente non sono riuscita minimamente a empatizzare con il protagonista. In generale, ho trovato la vicenda umana di Carrera tutto sommato poco realistica e a tratti scarsamente credibile e mi è rimasta addosso fortissima la sensazione che sia stata concepita totalmente a tavolino. L’ultima parte in particolare - in cui emerge l’utopia del futuro legata alla figura quasi messianica di Miaijin – mi ha addirittura quasi infastidita, perché mi sono sinceramente sentita un po’ presa in giro.
A questo si aggiunga lo stile di scrittura che alterna mimesi del parlato, anche al di fuori dei dialoghi, all’utilizzo di termini forbiti, in maniera secondo me del tutto gratuita. Il risultato è una scrittura scorrevole e piana (il libro si legge in pochissimo tempo), ma dal mio punto di vista per niente evocativa. All’ultima pagina mi sembra che il libro mi abbia lasciato addosso solo una sensazione di fastidio, per un’operazione che non sono riuscita a sentire autentica e che invece ho percepito come un po’ ruffiana e costruita.
Poi, è chiaro, io non sono nessuno, e il libro invece è un candidato al Premio Strega. Però a me non è piaciuto e se questo è il meglio che la letteratura italiana può offrire sono sinceramente preoccupata.
Voto: 2,5/5
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