Ci sono attori di teatro che seguo a prescindere da quello che portano in scena, perché li considero una garanzia di qualità assoluta. Ad Elisabetta Pozzi e Maria Paiato - che seguo ormai da diverso tempo - si è aggiunto più recentemente Arturo Cirillo, scoperto nello spettacolo Notturno di donna con ospiti di Annibale Ruccello e amato in via definitiva in Scende giù per Toledo di Patroni Griffi.
E così, quando vedo che è a Roma come regista e interprete di Lunga giornata verso la notte di Eugene O' Neill al Teatro Vascello compro immediatamente il biglietto e trascino con me G. e C.
Solo a ridosso del giorno dello spettacolo mi documento un po' su cosa sto per andare a vedere e scopro che Cirillo sta portando avanti un vero e proprio progetto personale di riscoperta della drammaturgia americana e che Lunga giornata verso la notte è la terza messa in scena dopo Lo zoo di vetro di Tennessee Williams e Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee.
L'opera di O'Neill risale al 1942 ed è un testo dichiaratamente autobiografico, che per volontà dello stesso autore fu rappresentato per la prima volta solo dopo la sua morte.
Si tratta del racconto di una giornata cruciale per la famiglia Tyrone, il padre James (lo stesso Cirillo), la madre Mary (la bravissima Milvia Maragliano), i figli James (Rosario Lisma) e il più giovane Edmund (Riccardo Buffonini) tornato in famiglia dopo un periodo trascorso sulle navi.
Sulla scena un'area centrale allestita come una sala di pranzo, da un lato un tavolo e delle sedie e dall'altro una poltrona; intorno a quest'area quattro postazioni come quelle nei camerini degli attori, cui i quattro personaggi tornano man mano che escono dalla scena principale.
Dal mattino fino alla sera si delineano i caratteri e la situazione dei singoli componenti della famiglia e soprattutto le relazioni tra di loro: il capofamiglia è un attore teatrale spesso in tournée, avaro e con la fissazione di acquisire proprietà terriere, la madre Mary è una donna fragile, appena uscita da una clinica, che oscilla tra la dipendenza dalle droghe e uno stato tra il folle e l'ossessivo, il figlio maggiore James è un attore fallito e un alcolista che riversa tutte le sue frustrazioni sulla famiglia, infine Edmund è un poeta promettente minato da una pericolosa tubercolosi.
Durante questa intensa giornata, ciascuno dei protagonisti si mette a nudo e giunge a una specie di confessione-resa dei conti con gli altri membri della famiglia. Lo scontro diventa via via più feroce e le verità che emergono sempre più gravose e dirompenti, mentre sulla scena una nebbia sempre più fitta avvolge gli attori, rendendo il clima ancora più cupo e privo di speranza.
La messa in scena di Cirillo è essenziale ma efficace, e l'amplificazione del tema della maschera attoriale appare particolarmente azzeccata per rappresentare la distanza tra il tentativo di preservare i legami familiari e i fantasmi che si agitano dentro e che qui fuoriescono con tutta la loro forza distruttiva. Gli attori svolgono egregiamente il loro lavoro per rendere credibili i personaggi che interpretano.
Resta a mio avviso - e direi quasi inevitabilmente - la percezione di un testo che agli occhi di noi contemporanei appare un po' meccanico e datato, non per assenza bensì forse per eccesso di pathos, quella specie di iperrealismo che tiene il pubblico un pochino distante e che impedisce una vera e propria empatia. E questo nonostante uno sforzo, evidente, da parte del regista di rendere il testo e la sua messa in scena più in linea con i meccanismi emotivi contemporanei.
Voto: 3/5
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