Siamo nel nord della Sardegna: Alessandro (Alessandro Gazale) è un cantante di musica folk che vive ancora con la madre e passa il tempo in cui non canta a bere e a giocare alle slot nei bar. Di fronte all’ennesima esplosione collerica, sua madre chiama la polizia e Alessandro viene portato in un reparto psichiatrico per essere disintossicato e rimesso in carreggiata.
Qui incontra Francesca (Francesca Niedda), una giovane donna altrettanta alienata e fuori posto nel mondo, probabilmente drogata e psicologicamente instabile, cui è stato tolto il figlio, Antonio (Antonio Angius), mandato in una comunità a Cagliari.
Francesca, con il suo modo non mediato di creare un contatto, conquista il cuore di Alessandro e fa scattare in lui il desiderio di aiutarla a ritrovare suo figlio. I due si mettono così in viaggio per le strade della Sardegna attraversandola da nord a sud, fino a Cagliari, dove però le viene negata la possibilità di vedere Antonio.
Quest’ultimo riesce a infilarsi di nascosto nella loro macchina e parte con loro, mentre prende corpo il folle tentativo di Francesca di inseguire un sogno e ricostruirsi una vita lontano dalla Sardegna. Alessandro gradualmente farà suo questo sogno, arrivando a sacrificare sé stesso per offrire una possibilità di riscatto alla donna che ama e a suo figlio.
Il film di Bonifacio Angius affronta un tema molto trattato nella cinematografia, quello dell’incontro tra due solitudini, il riconoscersi di due vite che non trovano posto nell’ordine del mondo, e che sono fatalmente e inevitabilmente destinate alla sconfitta, ma che nondimeno sono gonfie di sentimenti, di dolori, di piccole e grandi gioie, di desideri e di sogni come le vite di tutti. Questo legame si costruisce gradualmente sulle strade della Sardegna, una Sardegna di colline e vallate, molto diversa dalla Sardegna da cartolina cui siamo abituati, una terra aspra, difficile e che appare, agli occhi dei suoi personaggi, senza futuro.
Non c’è nulla di strettamente originale nel film di Angius, che – come lui stesso dice – si richiama ad alcuni grandi classici del passato che fanno parte della sua personale memoria cinematografica e utilizza i metodi già sperimentati da alcuni maestri (ad esempio la scelta di far recitare amici e parenti, come faceva John Cassavetes. Però certamente il film si illumina di una verità e di una umanità profonda e sentita che conferisce a questi personaggi spessore e significato, contribuendo – seppure per la breve durata di un lungometraggio – a far uscire dall’oscurità le vite di tutti quelli che con la vita non riescono a fare pace.
È per questo che – come dice la locandina – questo film è “tratto da mille storie vere”.
Voto: 3/5
Il regista si Chiama John Cassavetes
RispondiEliminaHai ragione, grazie. Ora correggo :-)
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