Grazie alle rassegne estive e in compagnia di mio nipote in visita a Roma, ho recuperato Tito e gli alieni che era uscito nell'ultima parte della stagione cinematografica e avevo perso.
La storia è molto semplice.
Siamo alla fine degli anni Settanta. Tito e Anita, due fratelli napoletani, il primo di 7 anni e l'altra adolescente, già orfani di madre, rimangono soli dopo la morte del padre. Quest'ultimo prima di morire ha deciso - comunicandoglielo solo a cose fatte - di affidare i figli al fratello (Valerio Mastandrea), uno scienziato che vive negli Stati Uniti, a un passo dall'Area 51, dove conduce un esperimento per conto del governo americano.
In realtà, il professore passa metà del suo tempo a realizzare strani e buffi oggetti con materiali di scarto e l'altra metà a dormire su un divano, in quanto dopo la morte della moglie ha praticamente accantonato il suo esperimento e si limita a sopravvivere, riducendo al minimo i suoi contatti col mondo, solo nel suo bislacco mondo in cui sembra avere interesse solo a continuare ad alimentare il ricordo e il dolore. L'arrivo dei due ragazzi metterà fine alla sua mesta quotidianità e al suo isolamento, costringendolo a fare i conti non più solo con il proprio dolore, ma anche con quello di Tito e Anita, a loro volta costretti a elaborare un lutto pesante a migliaia di chilometri da casa, sperduti nel deserto del Nevada, ma al contempo desiderosi di incontrare la vita che li aspetta.
Determinante sarà il ruolo di Stella (Clémence Poésy), una giovane donna che organizza "matrimoni spaziali" nella zona e per hobby si occupa di manicure, e che è una dei numerosi personaggi borderline che vivono esiliati da se stessi nei camper che compongono il paesino di Rachel, il punto "urbanizzato" più vicino a dove vive il professore.
La forza della vita che pretende di andare avanti, senza per questo lasciar scomparire i ricordi, farà irruzione nella quotidianità del professore grazie a Tito e Anita i quali - pur dovendo fare i conti con la solitudine - portano con sé l'inevitabile vitalità della loro età, la necessità di conoscere la vita, il desiderio di avventura, l'ansia della scoperta, la fiammella della ribellione, il bisogno di amare e di essere amati.
In un'atmosfera sempre più grottesca e surreale il professore si vedrà costretto - per il bene dei suoi nipoti - a uscire dalla propria condizione catatonica e infine a riprendere il suo esperimento, trovando negli esiti dello stesso la risposta al proprio dolore e a quello di Tito e Anita.
Quello di Paola Randi è un film di pochi mezzi (forse utilizzati in gran parte per girare negli splendidi e un po' inquietanti paesaggi lunari del cuore dell'America) che si regge fondamentalmente su alcuni elementi: una bella fotografia, una trascinante colonna sonora (che diventa a tratti intradiegetica), un uso moderno della cinepresa e del linguaggio cinematografico (vedi i cambiamenti di formato dello schermo di dolaniana memoria e qui anche ben utilizzati a rappresentare l'apertura al mondo e alla vita del professore), infine - e non ultima - la forza di un'idea semplice. Raccontare cosa vuol dire fare i conti con il passato e ricominciare a guardare avanti, lasciandosi nuovamente andare al flusso potente della vita.
E lo fa all'interno di questa cornice a metà strada tra la fantascienza e il surreale, dentro un mondo alla deriva dello spazio e del tempo, abitato da oggetti e da persone che in un qualche momento sono stati scartati o sono rimasti indietro. Ma, come nel piccolo mondo del professore non c'è oggetto scartato che la creatività non possa riciclare a nuova vita, così nel grande mondo in cui viviamo non c'è persona che non abbia possibilità di riscatto e che non possa trovare il senso della propria esistenza per quanto originale e poco comprensibile.
Voto: 3/5
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