Una donna nuda sta rannicchiata su un grande trespolo al centro di un palco completamente buio, mentre una luce illumina solo lei, come un animale da circo sottoposto allo sguardo e al giudizio degli spettatori. I suoi movimenti prima che apra bocca accentuano questa interpretazione della scena che si presenta ai nostri occhi: una creatura strana, bizzarra, decisamente ai limiti della normalità, che siamo chiamati a osservare e chissà se ci commuoverà, ci farà ridere o ci farà indignare.
Poi, quando siamo tutti lì che la osserviamo da un po’, questa donna comincia a vomitarci addosso la sua vita e le sue verità in un flusso di coscienza quasi ininterrotto, articolato in tre momenti.
Silvia Gallerano, l’interprete de La merda, mi impressiona per la sua incredibile varietà di espressioni, di toni, di volumi, di mimica facciale e non solo: una bambina indifesa e un po’ ingenua, una donna esasperata e disperata, un’amica in vena di confidenze, una figlia compressa tra due figure genitoriali piuttosto ingombranti, una ragazza ambiziosa schiacciata dal conformismo e incapace di ribellarsi alle imposizioni del mondo, una portatrice terrorizzata di diversità. Una figura femminile sfaccettata che attraversa un’Italia che nelle sue fauci tutto tritura, distruggendo brutture, miserie, grandezze e mezzucci e trasformandole in quella merda destinata a sua volta a essere ingoiata e nuovamente espulsa in un ciclo senza fine.
Non è una denuncia, non è un’invettiva: è uno sfogo esasperato, un’urgenza di comunicare che presto si trasforma in un urlo di insofferenza e disperazione.
L’interpretazione della Gallerano non può lasciare indifferenti, e non per la sua nudità che si dimentica dopo pochi minuti, ma per la “violenza” implicita delle sue parole e del mondo che raccontano, il tutto sbattuto in faccia a un pubblico che – un po’ come di fronte agli animali da circo che fanno i loro numeri - reagisce come può: qualcuno ne è disturbato, qualcuno scosso, qualcuno ironizza, qualcuno sorride, qualcuno addirittura ride, in quello che si può considerare quasi un curioso esperimento antropologico e sociologico collettivo.
Non tutto del testo di Cristian Ceresoli mi arriva, alcune cose mi sfuggono, altre mi appaiono financo banali, eppure il risultato resta di grande impatto emotivo anche a distanza di ormai dieci anni dalla sua prima messa in scena.
Mentre guardo e ascolto penso che forse dieci anni fa questo testo risultava ancora più dirompente e innovativo di oggi; molti temi nel frattempo sono stati sdoganati e portati allo scoperto, sebbene siano ancora lì irrisolti, in particolare quello relativo all’uso e abuso del corpo delle donne nella nostra società ancora profondamente maschilista. E mi ritrovo anche a pensare che è curioso che un testo che – tra gli altri – vuole affrontare specificamente questo tema sia stato scritto da un uomo, perché è certamente vero che la grandezza della scrittura sta proprio nella capacità di calarsi nei panni di persone che sono altro da sé, ma è altrettanto vero che lascia un po’ smarriti il fatto che siamo qui ad apprezzare un testo che parla della condizione delle donne ma che è stato scritto da un uomo.
Ne esco frastornata, com’è giusto che sia. Ho bisogno di pensarci nei giorni successivi e anche di confrontarmi con il punto di vista degli altri. E già solo per questo comprendo come mai questo spettacolo è stato tradotto e ha avuto successo in molti contesti culturali diversi.
Voto: 3/5
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