Helen e Danny stanno cenando a casa quando all'improvviso entra dalla loro porta un uomo ricoperto di sangue e in evidente stato confusionale. Si tratta del fratello di Helen, Liam, che racconta la sua versione di una vicenda che è appena avvenuta e in cui lui si è trovato coinvolto.
A quest'esordio fulminante, ma non del tutto originale, seguono altri tre momenti, che coincidono con la rotazione della scenografia iniziale per offrire al pubblico - anche simbolicamente - prospettive diverse di visione dei protagonisti e di lettura della storia.
In ognuno di questi momenti successivi, infatti, della storia di Liam emerge un pezzetto di verità che rende la vicenda sempre più inquietante, mentre intorno a lui si innescano altre dinamiche: l'ostinazione di Helen nel voler aiutare il fratello fino a diventarne complice, il tentativo di Danny di convincere Helen a scegliere un comportamento etico per poi soccombere alle insistenze della moglie, e - più in generale - gli intrecci e i ricatti emotivi, i sensi di colpa e gli slanci che legano a doppio filo i tre protagonisti fino a farli precipitare in un tunnel senza uscita.
Negli ultimi mesi io e F. stiamo inanellando una serie di visioni (tra film e spettacoli teatrali), in cui il tema della distanza tra essere e voler essere è centrale, soprattutto in riferimento al rapporto con il diverso, lo straniero, il migrante e con tutto quello che porta con sé in termini di diversità culturali e religiose e, dunque, di paure e di conflitti reali e potenziali.
Anche qui al cuore del dramma c'è la deriva estremista del fratello borderline e la sua ostilità nei confronti della comunità pakistana, solo che accanto all'ostilità esplicita di Liam emerge a poco a poco l'ostilità latente anche degli altri protagonisti e, attraverso di loro, della società tutta.
Nel caso specifico del testo di Dennis Kelly questo tema si intreccia con quello dei condizionamenti reciproci che si innescano tra Helen, Danny e Liam, tre personaggi che dipendono l'uno dall'altro e per questo si trascinano a vicenda in un baratro autodistruttivo sul piano emotivo e materiale.
Il testo è potente, anche perché riesce a introdurre effetti inquietantemente ironici e quasi divertenti in una trama decisamente angosciante e in un contesto intriso di violenza.
In questo sono sicuramente bravi i tre attori, Monica Nappo (che ha fortemente voluto portare in Italia il lavoro di Kelly), Paolo Mazzarelli e Lino Musella (un inquietante Liam).
Personalmente, ho sofferto un po' alcuni aspetti dello spettacolo, in parte suoi propri, in parte dovuti all'adattamento italiano. Sul primo fronte mi rendo conto di avere un atteggiamento sempre più ostile nei confronti di certa scrittura angloamericana, in cui il confine tra testo teatrale, cinematografico e televisivo si fa evanescente, cosicché si perde in parte la specificità del linguaggio che caratterizza questi diversi mondi.
Sul secondo fronte, mi ha un po' infastidito il fatto che lo spettacolo mantiene i nomi dei protagonisti stranieri e i riferimenti interni appartenenti a quel mondo (la marca del divano, per dirne una), ma è recitato da italiani che non nascondono gli accenti regionali di provenienza. Probabilmente si tratta di una scelta - che posso anche condividere, anche perché la vicenda potrebbe essere tranquillamente avvenuta in Italia senza praticamente differenze - ma a quel punto avrei osato un po' di più e avrei trasposto completamente il testo nel nostro contesto culturale, cosa fattibile anche solo cambiando nomi e pochi riferimenti.
Sempre a livello di adattamento, mi ha colpito un uso pervasivo del presente e del passato al posto del congiuntivo, che certamente si adattano bene al parlato - soprattutto quello riferito a classi sociali non elevate - ma che in questo caso non mi è sembrata una scelta finalizzata a rimarcare differenze culturali, bensì solo a rendere più scorrevole la recitazione (cosa che però al mio orecchio è risultata un po' stonata).
Comunque, uno spettacolo di ottimo livello che - vista la stagione teatrale di rilievo fin qui - è forse stata sottoposto da parte mia a una considerazione critica financo eccessiva.
Voto: 3/5
mercoledì 28 marzo 2018
lunedì 26 marzo 2018
La merda. Auditorium Parco della musica, 23 marzo 2018
Una donna nuda sta rannicchiata su un grande trespolo al centro di un palco completamente buio, mentre una luce illumina solo lei, come un animale da circo sottoposto allo sguardo e al giudizio degli spettatori. I suoi movimenti prima che apra bocca accentuano questa interpretazione della scena che si presenta ai nostri occhi: una creatura strana, bizzarra, decisamente ai limiti della normalità, che siamo chiamati a osservare e chissà se ci commuoverà, ci farà ridere o ci farà indignare.
Poi, quando siamo tutti lì che la osserviamo da un po’, questa donna comincia a vomitarci addosso la sua vita e le sue verità in un flusso di coscienza quasi ininterrotto, articolato in tre momenti.
Silvia Gallerano, l’interprete de La merda, mi impressiona per la sua incredibile varietà di espressioni, di toni, di volumi, di mimica facciale e non solo: una bambina indifesa e un po’ ingenua, una donna esasperata e disperata, un’amica in vena di confidenze, una figlia compressa tra due figure genitoriali piuttosto ingombranti, una ragazza ambiziosa schiacciata dal conformismo e incapace di ribellarsi alle imposizioni del mondo, una portatrice terrorizzata di diversità. Una figura femminile sfaccettata che attraversa un’Italia che nelle sue fauci tutto tritura, distruggendo brutture, miserie, grandezze e mezzucci e trasformandole in quella merda destinata a sua volta a essere ingoiata e nuovamente espulsa in un ciclo senza fine.
Non è una denuncia, non è un’invettiva: è uno sfogo esasperato, un’urgenza di comunicare che presto si trasforma in un urlo di insofferenza e disperazione.
L’interpretazione della Gallerano non può lasciare indifferenti, e non per la sua nudità che si dimentica dopo pochi minuti, ma per la “violenza” implicita delle sue parole e del mondo che raccontano, il tutto sbattuto in faccia a un pubblico che – un po’ come di fronte agli animali da circo che fanno i loro numeri - reagisce come può: qualcuno ne è disturbato, qualcuno scosso, qualcuno ironizza, qualcuno sorride, qualcuno addirittura ride, in quello che si può considerare quasi un curioso esperimento antropologico e sociologico collettivo.
Non tutto del testo di Cristian Ceresoli mi arriva, alcune cose mi sfuggono, altre mi appaiono financo banali, eppure il risultato resta di grande impatto emotivo anche a distanza di ormai dieci anni dalla sua prima messa in scena.
Mentre guardo e ascolto penso che forse dieci anni fa questo testo risultava ancora più dirompente e innovativo di oggi; molti temi nel frattempo sono stati sdoganati e portati allo scoperto, sebbene siano ancora lì irrisolti, in particolare quello relativo all’uso e abuso del corpo delle donne nella nostra società ancora profondamente maschilista. E mi ritrovo anche a pensare che è curioso che un testo che – tra gli altri – vuole affrontare specificamente questo tema sia stato scritto da un uomo, perché è certamente vero che la grandezza della scrittura sta proprio nella capacità di calarsi nei panni di persone che sono altro da sé, ma è altrettanto vero che lascia un po’ smarriti il fatto che siamo qui ad apprezzare un testo che parla della condizione delle donne ma che è stato scritto da un uomo.
Ne esco frastornata, com’è giusto che sia. Ho bisogno di pensarci nei giorni successivi e anche di confrontarmi con il punto di vista degli altri. E già solo per questo comprendo come mai questo spettacolo è stato tradotto e ha avuto successo in molti contesti culturali diversi.
Voto: 3/5
Poi, quando siamo tutti lì che la osserviamo da un po’, questa donna comincia a vomitarci addosso la sua vita e le sue verità in un flusso di coscienza quasi ininterrotto, articolato in tre momenti.
Silvia Gallerano, l’interprete de La merda, mi impressiona per la sua incredibile varietà di espressioni, di toni, di volumi, di mimica facciale e non solo: una bambina indifesa e un po’ ingenua, una donna esasperata e disperata, un’amica in vena di confidenze, una figlia compressa tra due figure genitoriali piuttosto ingombranti, una ragazza ambiziosa schiacciata dal conformismo e incapace di ribellarsi alle imposizioni del mondo, una portatrice terrorizzata di diversità. Una figura femminile sfaccettata che attraversa un’Italia che nelle sue fauci tutto tritura, distruggendo brutture, miserie, grandezze e mezzucci e trasformandole in quella merda destinata a sua volta a essere ingoiata e nuovamente espulsa in un ciclo senza fine.
Non è una denuncia, non è un’invettiva: è uno sfogo esasperato, un’urgenza di comunicare che presto si trasforma in un urlo di insofferenza e disperazione.
L’interpretazione della Gallerano non può lasciare indifferenti, e non per la sua nudità che si dimentica dopo pochi minuti, ma per la “violenza” implicita delle sue parole e del mondo che raccontano, il tutto sbattuto in faccia a un pubblico che – un po’ come di fronte agli animali da circo che fanno i loro numeri - reagisce come può: qualcuno ne è disturbato, qualcuno scosso, qualcuno ironizza, qualcuno sorride, qualcuno addirittura ride, in quello che si può considerare quasi un curioso esperimento antropologico e sociologico collettivo.
Non tutto del testo di Cristian Ceresoli mi arriva, alcune cose mi sfuggono, altre mi appaiono financo banali, eppure il risultato resta di grande impatto emotivo anche a distanza di ormai dieci anni dalla sua prima messa in scena.
Mentre guardo e ascolto penso che forse dieci anni fa questo testo risultava ancora più dirompente e innovativo di oggi; molti temi nel frattempo sono stati sdoganati e portati allo scoperto, sebbene siano ancora lì irrisolti, in particolare quello relativo all’uso e abuso del corpo delle donne nella nostra società ancora profondamente maschilista. E mi ritrovo anche a pensare che è curioso che un testo che – tra gli altri – vuole affrontare specificamente questo tema sia stato scritto da un uomo, perché è certamente vero che la grandezza della scrittura sta proprio nella capacità di calarsi nei panni di persone che sono altro da sé, ma è altrettanto vero che lascia un po’ smarriti il fatto che siamo qui ad apprezzare un testo che parla della condizione delle donne ma che è stato scritto da un uomo.
Ne esco frastornata, com’è giusto che sia. Ho bisogno di pensarci nei giorni successivi e anche di confrontarmi con il punto di vista degli altri. E già solo per questo comprendo come mai questo spettacolo è stato tradotto e ha avuto successo in molti contesti culturali diversi.
Voto: 3/5
venerdì 23 marzo 2018
Giocando con Orlando / con Stefano Accorsi. Teatro Ambra Jovinelli, 13 marzo 2018
Stefano Accorsi è uno di quegli attori che non ho mai apprezzato particolarmente al cinema e in televisione e che invece ho riscoperto al teatro, dove dimostra un carisma e una qualità di recitazione decisamente apprezzabili.
Sarà anche che al teatro Stefano Accorsi ha stretto un fruttuoso sodalizio con Marco Baliani, con cui da qualche anno porta avanti un progetto di riscrittura teatrale dei grandi classici della letteratura italiana. A suo tempo avevo visto lo spettacolo dedicato al Decamerone di Boccaccio; quest’anno riesco a vedere la messa in scena dell’Orlando Furioso, che in passato Stefano Accorsi e Marco Baliani avevano recitato insieme, mentre invece in questo allestimento si configura come un assolo.
In pratica lo spettacolo è la storia di Orlando raccontata in parte con le parole originali scritte da Ludovico Ariosto in parte con un testo scritto da Baliani e ispirato – non solo nei contenuti bensì anche nelle forme linguistiche e nel tono complessivo – al testo originale.
Non a caso la sala – contrariamente a quanto accade normalmente a teatro – è piena di giovani studenti, con o senza i loro insegnanti, che certamente sono più freschi di noi nello studio dell’Orlando furioso e quindi probabilmente riescono persino a seguire con maggiore facilità.
Che si conosca o meno la storia e il testo dell’Orlando Furioso, il merito dello spettacolo di Baliani e dell’interpretazione di Accorsi è quello di rendere questa storia godibile e di riportarla a quella condizione di narrazione di intrattenimento che certamente corrisponde di più alle sue origini, piuttosto che sottolinearne la sua aura di opera letteraria aulica e per ciò stesso respingente.
Bella anche la scenografia, fatta di elementi semplici che richiamano piani diversi ed elementi simbolici che rimandano al mito, nonché le luci e le musiche che certamente contribuiscono a valorizzare la recitazione di Accorsi.
In conclusione, una conferma dell’efficacia del sodalizio Baliani/Accorsi che speriamo possa produrre in futuro altri risultati apprezzabili come questo e altri esperimenti che ci aiutino a riscoprire il nostro patrimonio letterario in modo intelligente e divertente.
Voto: 3,5/5
Sarà anche che al teatro Stefano Accorsi ha stretto un fruttuoso sodalizio con Marco Baliani, con cui da qualche anno porta avanti un progetto di riscrittura teatrale dei grandi classici della letteratura italiana. A suo tempo avevo visto lo spettacolo dedicato al Decamerone di Boccaccio; quest’anno riesco a vedere la messa in scena dell’Orlando Furioso, che in passato Stefano Accorsi e Marco Baliani avevano recitato insieme, mentre invece in questo allestimento si configura come un assolo.
In pratica lo spettacolo è la storia di Orlando raccontata in parte con le parole originali scritte da Ludovico Ariosto in parte con un testo scritto da Baliani e ispirato – non solo nei contenuti bensì anche nelle forme linguistiche e nel tono complessivo – al testo originale.
Non a caso la sala – contrariamente a quanto accade normalmente a teatro – è piena di giovani studenti, con o senza i loro insegnanti, che certamente sono più freschi di noi nello studio dell’Orlando furioso e quindi probabilmente riescono persino a seguire con maggiore facilità.
Che si conosca o meno la storia e il testo dell’Orlando Furioso, il merito dello spettacolo di Baliani e dell’interpretazione di Accorsi è quello di rendere questa storia godibile e di riportarla a quella condizione di narrazione di intrattenimento che certamente corrisponde di più alle sue origini, piuttosto che sottolinearne la sua aura di opera letteraria aulica e per ciò stesso respingente.
Bella anche la scenografia, fatta di elementi semplici che richiamano piani diversi ed elementi simbolici che rimandano al mito, nonché le luci e le musiche che certamente contribuiscono a valorizzare la recitazione di Accorsi.
In conclusione, una conferma dell’efficacia del sodalizio Baliani/Accorsi che speriamo possa produrre in futuro altri risultati apprezzabili come questo e altri esperimenti che ci aiutino a riscoprire il nostro patrimonio letterario in modo intelligente e divertente.
Voto: 3,5/5
mercoledì 21 marzo 2018
Il filo nascosto
Nella Londra degli anni Cinquanta Reynolds Woodcock (Daniel Day Lewis) gestisce insieme alla sorella Cyril (Lesley Manville) una casa di moda, in cui vengono realizzati - su disegni dello stesso Reynolds - abiti per tutte l'aristocrazia e la ricca borghesia del tempo.
Reynolds ha una personalità complessa e contraddittoria: è maniacale nel suo perfezionismo e ha un atteggiamento bulimico verso il suo lavoro, intorno al quale ha costruito l'intera sua vita, assecondato in questo dalla sorella, ma è anche un insicuro che non ha mai risolto il suo rapporto con la madre morta e che - quasi scaramanticamente - affida piccoli messaggi e pensieri a dei pezzi di stoffa che cuce in punti nascosti dei suoi abiti.
La sua vita procede per cicli di grande entusiasmo, che riversa principalmente nel lavoro e - in alcune fasi - anche sulle donne di cui si innamora, e brevi momenti di quello che oggi chiameremmo burnout, da cui si rialza pieno di nuove energie per disfarsi del "vecchio" e ripartire.
Negli equilibri un po' patologici di questa vita arriva a un certo punto la giovane Alma (Vicky Krieps), una cameriera maldestra che Reynolds ha incontrato durante la pausa di uno dei suoi viaggi in macchina e che presto trasformerà nella sua nuova musa e modella.
I segnali dell'esaurirsi di questa fase sembrano far presagire che la storia si ripeta sempre uguale con l'allontanamento della donna, rispetto alla quale Reynolds ha perso ormai interesse. Ma Alma dimostrerà una consapevolezza dei propri bisogni e una comprensione dei meccanismi della relazione con Reynolds capaci di spiazzare innanzitutto Cyril e, in secondo luogo, il giovane dottore cui Alma racconta la sua storia in un lungo flashback.
Il filo nascosto è l'ennesimo capitolo di un unico, lunghissimo discorso che Paul Thomas Anderson sta portando avanti praticamente dall'inizio della sua carriera cinematografica, ossia quello della manipolazione che ciascun essere umano può esercitare nei confronti di altri esseri umani. La sua riflessione nel corso del tempo si è concentrata sul rapporto a due (si vedano ad esempio Il petroliere e The master) per rivelare che la manipolazione è sempre un meccanismo bidirezionale, che si attua grazie all'innescarsi di una co-dipendenza. A questa "conclusione" il regista (e sceneggiatore dei suoi film) era arrivato già in The master; qui però fa un ulteriore passo avanti in quanto, oltre a scoprire le carte della manipolazione, rivela non solo la consapevolezza che ne hanno i protagonisti, ma addirittura la mutua soddisfazione - pur patologica - che ne deriva.
Il film di Paul Thomas Anderson - oltre a essere esteticamente perfetto e a riportare in vita le atmosfere di alcuni classici della cinematografia - si fa apprezzare perché discute in modo non banale come la sopravvivenza di una dinamica relazionale sia talvolta una risposta di coppia alle idiosincrasie e ai bisogni affettivi profondi dei singoli, aggirandone le resistenze in modi non sempre moralmente accettabili né comprensibili dall'esterno, ma conferendo senso ai gap emotivi di ognuno. Reynolds vuole essere accudito, ma non se lo concede perché schiavo del suo lavoro; Alma vuole amare e non solo essere oggetto d'amore con i tempi e i modi di Reynolds. I due si incontreranno in un terreno impervio e scivoloso che porterà entrambi molto vicini ai propri limiti.
Voto: 3,5/5
Reynolds ha una personalità complessa e contraddittoria: è maniacale nel suo perfezionismo e ha un atteggiamento bulimico verso il suo lavoro, intorno al quale ha costruito l'intera sua vita, assecondato in questo dalla sorella, ma è anche un insicuro che non ha mai risolto il suo rapporto con la madre morta e che - quasi scaramanticamente - affida piccoli messaggi e pensieri a dei pezzi di stoffa che cuce in punti nascosti dei suoi abiti.
La sua vita procede per cicli di grande entusiasmo, che riversa principalmente nel lavoro e - in alcune fasi - anche sulle donne di cui si innamora, e brevi momenti di quello che oggi chiameremmo burnout, da cui si rialza pieno di nuove energie per disfarsi del "vecchio" e ripartire.
Negli equilibri un po' patologici di questa vita arriva a un certo punto la giovane Alma (Vicky Krieps), una cameriera maldestra che Reynolds ha incontrato durante la pausa di uno dei suoi viaggi in macchina e che presto trasformerà nella sua nuova musa e modella.
I segnali dell'esaurirsi di questa fase sembrano far presagire che la storia si ripeta sempre uguale con l'allontanamento della donna, rispetto alla quale Reynolds ha perso ormai interesse. Ma Alma dimostrerà una consapevolezza dei propri bisogni e una comprensione dei meccanismi della relazione con Reynolds capaci di spiazzare innanzitutto Cyril e, in secondo luogo, il giovane dottore cui Alma racconta la sua storia in un lungo flashback.
Il filo nascosto è l'ennesimo capitolo di un unico, lunghissimo discorso che Paul Thomas Anderson sta portando avanti praticamente dall'inizio della sua carriera cinematografica, ossia quello della manipolazione che ciascun essere umano può esercitare nei confronti di altri esseri umani. La sua riflessione nel corso del tempo si è concentrata sul rapporto a due (si vedano ad esempio Il petroliere e The master) per rivelare che la manipolazione è sempre un meccanismo bidirezionale, che si attua grazie all'innescarsi di una co-dipendenza. A questa "conclusione" il regista (e sceneggiatore dei suoi film) era arrivato già in The master; qui però fa un ulteriore passo avanti in quanto, oltre a scoprire le carte della manipolazione, rivela non solo la consapevolezza che ne hanno i protagonisti, ma addirittura la mutua soddisfazione - pur patologica - che ne deriva.
Il film di Paul Thomas Anderson - oltre a essere esteticamente perfetto e a riportare in vita le atmosfere di alcuni classici della cinematografia - si fa apprezzare perché discute in modo non banale come la sopravvivenza di una dinamica relazionale sia talvolta una risposta di coppia alle idiosincrasie e ai bisogni affettivi profondi dei singoli, aggirandone le resistenze in modi non sempre moralmente accettabili né comprensibili dall'esterno, ma conferendo senso ai gap emotivi di ognuno. Reynolds vuole essere accudito, ma non se lo concede perché schiavo del suo lavoro; Alma vuole amare e non solo essere oggetto d'amore con i tempi e i modi di Reynolds. I due si incontreranno in un terreno impervio e scivoloso che porterà entrambi molto vicini ai propri limiti.
Voto: 3,5/5
lunedì 19 marzo 2018
Disgraced / Ayad Akhtar. Teatro India, 9 marzo 2018
Il testo da cui è tratto lo spettacolo teatrale messo in scena al Teatro India è quello con cui lo scrittore americano di origini pakistane Ayad Akhtar ha vinto nel 2013 il Premio Pulitzer.
Disgraced è la storia di Amir, un americano di origini pakistane (esattamente come l’autore del testo), che ha preso le distanze dalle sue origini e dalla religione musulmana, e sembra essere perfettamente integrato nella società americana: è sposato con una donna americana, artista di larghe vedute, peraltro appassionata dell’arte islamica, e lavora per un importante studio di avvocati che si occupano di questioni finanziarie.
In realtà le cose sono molto meno semplici e risolte di come appaiano, soprattutto nell'America del post 11 settembre, dove le persone di origine musulmana sono guardate con sospetto già solo per il loro aspetto (anche se magari sono nati negli Stati Uniti). E da questo punto di vista mi è tornato in mente il film The reluctant fundamentalist che avevo visto al cinema qualche anno fa.
Amir infatti – oltre ad aver cambiato il suo cognome – cerca di non esibire le sue origini e non perde occasione per ribadire la sua distanza culturale da una religione, nata – come dice lui – in un deserto per una società tribale. Anche per questo è in difficoltà con suo nipote, Abe, che vorrebbe il suo aiuto per un amico Imam che è accusato di sostegno alle attività terroristiche.
Tutte queste contraddizioni esplodono durante una cena cui sono invitati il gallerista ebreo che esporrà le opere di sua moglie con la relativa moglie afroamericana, tra l’altro collega di Amir nello stesso studio legale.
Durante questa cena emergono da un lato le ipocrisie della classe colta e liberale americana che scambia il proprio essere politicamente corretta con la capacità vera di fare i conti con la diversità e i possibili pericoli che in essa sono insiti, dall’altro la fragilità di un’integrazione che – sembra dirci l’autore – è possibile solo in una situazione ideale o facendo finta che le differenze e le contraddizioni non esistano.
Il punto di vista del testo di Akhtar fa molto discutere perché sembra non lasciare spazio ad alcun tipo di speranza e sembra suggerire che – per quanto razionalmente si prendano le distanze dalle proprie origini - queste possono in qualunque momento riprendere il sopravvento in una situazione emotivamente difficile o quando si è sotto pressione, e che a quel punto la lettura delle tue azioni sarà sempre ricondotta alle tue origini.
Ayad Akhtar solleva il velo da una società solo apparentemente aperta, liberale, multiculturale, nella quale in realtà l’integrazione è di là da venire e forse per certi versi impossibile, e in cui - pur essendo l’America stessa il risultato di un melting pot - ciascuna etnia fa a gara per rivendicare la propria maggiore americanità e la consonanza del proprio background culturale con i principi fondativi della nazione americana.
Un testo che sarebbe risultato profondamente razzista se non fosse stato scritto da qualcuno che con quel clima di sospetto che è l’anticamera del razzismo nonché della propria radicalizzazione ha dovuto fare i conti in prima persona e sulla propria pelle.
Di buon livello anche gli attori, tra l’altro scelti all’interno delle comunità etniche che rappresentano in modo da rendere la rappresentazione più realistica.
Dal punto di vista narrativo il testo parte un po’ in sordina per crescere a poco a poco. A me resta una certa idiosincrasia nei confronti di una scrittura americana molto molto tipica, a cui forse ci siamo così abituati che ormai a tratti risulta piuttosto stucchevole. Però, certamente, in questo caso da un testo apparentemente molto tipico e già sentito viene fuori un dramma molto originale e per nulla banale.
Voto: 3,5/5
Disgraced è la storia di Amir, un americano di origini pakistane (esattamente come l’autore del testo), che ha preso le distanze dalle sue origini e dalla religione musulmana, e sembra essere perfettamente integrato nella società americana: è sposato con una donna americana, artista di larghe vedute, peraltro appassionata dell’arte islamica, e lavora per un importante studio di avvocati che si occupano di questioni finanziarie.
In realtà le cose sono molto meno semplici e risolte di come appaiano, soprattutto nell'America del post 11 settembre, dove le persone di origine musulmana sono guardate con sospetto già solo per il loro aspetto (anche se magari sono nati negli Stati Uniti). E da questo punto di vista mi è tornato in mente il film The reluctant fundamentalist che avevo visto al cinema qualche anno fa.
Amir infatti – oltre ad aver cambiato il suo cognome – cerca di non esibire le sue origini e non perde occasione per ribadire la sua distanza culturale da una religione, nata – come dice lui – in un deserto per una società tribale. Anche per questo è in difficoltà con suo nipote, Abe, che vorrebbe il suo aiuto per un amico Imam che è accusato di sostegno alle attività terroristiche.
Tutte queste contraddizioni esplodono durante una cena cui sono invitati il gallerista ebreo che esporrà le opere di sua moglie con la relativa moglie afroamericana, tra l’altro collega di Amir nello stesso studio legale.
Durante questa cena emergono da un lato le ipocrisie della classe colta e liberale americana che scambia il proprio essere politicamente corretta con la capacità vera di fare i conti con la diversità e i possibili pericoli che in essa sono insiti, dall’altro la fragilità di un’integrazione che – sembra dirci l’autore – è possibile solo in una situazione ideale o facendo finta che le differenze e le contraddizioni non esistano.
Il punto di vista del testo di Akhtar fa molto discutere perché sembra non lasciare spazio ad alcun tipo di speranza e sembra suggerire che – per quanto razionalmente si prendano le distanze dalle proprie origini - queste possono in qualunque momento riprendere il sopravvento in una situazione emotivamente difficile o quando si è sotto pressione, e che a quel punto la lettura delle tue azioni sarà sempre ricondotta alle tue origini.
Ayad Akhtar solleva il velo da una società solo apparentemente aperta, liberale, multiculturale, nella quale in realtà l’integrazione è di là da venire e forse per certi versi impossibile, e in cui - pur essendo l’America stessa il risultato di un melting pot - ciascuna etnia fa a gara per rivendicare la propria maggiore americanità e la consonanza del proprio background culturale con i principi fondativi della nazione americana.
Un testo che sarebbe risultato profondamente razzista se non fosse stato scritto da qualcuno che con quel clima di sospetto che è l’anticamera del razzismo nonché della propria radicalizzazione ha dovuto fare i conti in prima persona e sulla propria pelle.
Di buon livello anche gli attori, tra l’altro scelti all’interno delle comunità etniche che rappresentano in modo da rendere la rappresentazione più realistica.
Dal punto di vista narrativo il testo parte un po’ in sordina per crescere a poco a poco. A me resta una certa idiosincrasia nei confronti di una scrittura americana molto molto tipica, a cui forse ci siamo così abituati che ormai a tratti risulta piuttosto stucchevole. Però, certamente, in questo caso da un testo apparentemente molto tipico e già sentito viene fuori un dramma molto originale e per nulla banale.
Voto: 3,5/5
martedì 13 marzo 2018
Lady Bird
Come dice la mia amica F. all'uscita dal cinema, in questo primo film di Greta Gerwig non c'è niente che sia veramente nuovo: il coming of age di un'adolescente di periferia, il rapporto conflittuale madre-figlia, il fare i conti con le proprie radici, il coraggio di essere se stessi, la difficile costruzione dei rapporti con gli altri.
Siamo nei primi anni Duemila, non molto lontani dall’11 settembre 2001.
Christine (Saoirse Ronan), che si fa chiamare da tutti Lady Bird, è all’ultimo anno di scuola prima del college e sta per compiere 18 anni. Vive a Sacramento, “il Midwest della California”, e frequenta una scuola cattolica perché sua madre vuole preservarla dai pericoli della scuola pubblica. Quella di Lady Bird è una famiglia modesta, in cui la madre lavora su turni in un ospedale psichiatrico, il padre è dolce e buono, ma tende alla depressione, il fratello Miguel è alla ricerca di un lavoro vero, insieme alla sua fidanzata che si è trasferita da loro perché rifiutata dalla famiglia.
Lady Bird – come qualunque diciassettenne che si rispetti – è insofferente rispetto al piccolo mondo cui appartiene, vuole fare nuove esperienze, conoscere persone nuove; ma il massimo che riesce a fare è partecipare al musical messo in scena dalla sua scuola insieme alla sua amica Julie, che ha un rapporto non facile con la famiglia e con il cibo.
Lady Bird si innamorerà prima di Danny (Lucas Hedges), poi di Kyle (Timothée Chalamet), si allontanerà da Julie, proverà a frequentare le sue compagne di scuola più ricche e fascinose, si farà aiutare dal padre a fare domanda per un college sulla East Coast, che per lei rappresenta il mondo vero, quello a cui aspira.
In questo anno così determinante per la sua vita capirà molte cose: che la realtà non è sempre come sembra, che i soldi non sono necessariamente sinonimo di apertura mentale, che "pomiciare" può essere talvolta più bello che fare l’amore, che solo con le amiche vere si possono fare pazzie e "scemitudini", che l’amore - grande - di una madre si nasconde spesso dietro una facciata di durezza, che è necessario allontanarsi dal proprio mondo per recuperare le nostre radici e capire chi siamo e cosa vogliamo.
Tutto ciò detto, sembra proprio che la mia amica F. abbia ragione e probabilmente ce l’ha.
Io però ho trovato qualcosa di emozionante in modo speciale in questo film. Nel personaggio di Lady Bird ci sono una schiettezza, una naturalezza e una possibilità di riconoscersi che sono rari. Greta Gerwig riesce a mantenere mirabilmente in equilibrio leggerezza e profondità, e riesce a trasmetterci qualcosa che chiaramente viene da un’esperienza vissuta emotivamente sulla propria pelle.
E se è vero che nel complesso non ci sono guizzi di originalità (ma cosa si può ancora dire di originale sull’età del passaggio dall’adolescenza all’età adulta?), tutto quello che ci racconta è intriso di una sincerità e di una riconoscibilità, cui certamente contribuisce la notevole interpretazione di Saoirse Ronan, adolescente testarda, a tratti insopportabile, immatura ed egoista (come forse tutti noi siamo stati in quel momento della vita, e non solo), ma anche ricca di quella speranza che stride pesantemente con la rassegnazione, il cinismo e la fatica del mondo adulto.
Il rapporto con la madre – pur essendo un classico di queste storie – tocca vette di realismo emotivo che raramente si vedono sullo schermo, fin dalla prima scena: il pianto di madre e figlia insieme in macchina al termine dell’audiolibro Furore di Steinbeck e il repentino passaggio a un litigio nato dal nulla e che termina in un crescendo di incomunicabilità racchiudono il senso di un rapporto che vive di estremi, perché si nutre di un amore grande ma fa i conti con la necessità della presa di distanza.
Io mi sono commossa ed emozionata. Ma questo ovviamente è molto soggettivo e credo anche contingente.
Voto: 3,5/5
Siamo nei primi anni Duemila, non molto lontani dall’11 settembre 2001.
Christine (Saoirse Ronan), che si fa chiamare da tutti Lady Bird, è all’ultimo anno di scuola prima del college e sta per compiere 18 anni. Vive a Sacramento, “il Midwest della California”, e frequenta una scuola cattolica perché sua madre vuole preservarla dai pericoli della scuola pubblica. Quella di Lady Bird è una famiglia modesta, in cui la madre lavora su turni in un ospedale psichiatrico, il padre è dolce e buono, ma tende alla depressione, il fratello Miguel è alla ricerca di un lavoro vero, insieme alla sua fidanzata che si è trasferita da loro perché rifiutata dalla famiglia.
Lady Bird – come qualunque diciassettenne che si rispetti – è insofferente rispetto al piccolo mondo cui appartiene, vuole fare nuove esperienze, conoscere persone nuove; ma il massimo che riesce a fare è partecipare al musical messo in scena dalla sua scuola insieme alla sua amica Julie, che ha un rapporto non facile con la famiglia e con il cibo.
Lady Bird si innamorerà prima di Danny (Lucas Hedges), poi di Kyle (Timothée Chalamet), si allontanerà da Julie, proverà a frequentare le sue compagne di scuola più ricche e fascinose, si farà aiutare dal padre a fare domanda per un college sulla East Coast, che per lei rappresenta il mondo vero, quello a cui aspira.
In questo anno così determinante per la sua vita capirà molte cose: che la realtà non è sempre come sembra, che i soldi non sono necessariamente sinonimo di apertura mentale, che "pomiciare" può essere talvolta più bello che fare l’amore, che solo con le amiche vere si possono fare pazzie e "scemitudini", che l’amore - grande - di una madre si nasconde spesso dietro una facciata di durezza, che è necessario allontanarsi dal proprio mondo per recuperare le nostre radici e capire chi siamo e cosa vogliamo.
Tutto ciò detto, sembra proprio che la mia amica F. abbia ragione e probabilmente ce l’ha.
Io però ho trovato qualcosa di emozionante in modo speciale in questo film. Nel personaggio di Lady Bird ci sono una schiettezza, una naturalezza e una possibilità di riconoscersi che sono rari. Greta Gerwig riesce a mantenere mirabilmente in equilibrio leggerezza e profondità, e riesce a trasmetterci qualcosa che chiaramente viene da un’esperienza vissuta emotivamente sulla propria pelle.
E se è vero che nel complesso non ci sono guizzi di originalità (ma cosa si può ancora dire di originale sull’età del passaggio dall’adolescenza all’età adulta?), tutto quello che ci racconta è intriso di una sincerità e di una riconoscibilità, cui certamente contribuisce la notevole interpretazione di Saoirse Ronan, adolescente testarda, a tratti insopportabile, immatura ed egoista (come forse tutti noi siamo stati in quel momento della vita, e non solo), ma anche ricca di quella speranza che stride pesantemente con la rassegnazione, il cinismo e la fatica del mondo adulto.
Il rapporto con la madre – pur essendo un classico di queste storie – tocca vette di realismo emotivo che raramente si vedono sullo schermo, fin dalla prima scena: il pianto di madre e figlia insieme in macchina al termine dell’audiolibro Furore di Steinbeck e il repentino passaggio a un litigio nato dal nulla e che termina in un crescendo di incomunicabilità racchiudono il senso di un rapporto che vive di estremi, perché si nutre di un amore grande ma fa i conti con la necessità della presa di distanza.
Io mi sono commossa ed emozionata. Ma questo ovviamente è molto soggettivo e credo anche contingente.
Voto: 3,5/5