lunedì 29 gennaio 2018

Chiamami col tuo nome

Siamo nel 1983. Elio (Timothée Chalamet) è un diciassettenne decisamente non ordinario: trascorre le sue giornate trascrivendo musica classica, suonando il pianoforte, leggendo e interagendo con i propri coetanei in quell'età della vita in cui sbocciano i primi amori importanti. Viene da una famiglia colta e cosmopolita, molto benestante e dalle idee decisamente liberali.

La famiglia sta trascorrendo – come sempre – le vacanze estive nella casa della campagna cremasca che la madre ha ereditato e, come ogni estate, il padre - professore universitario - ha invitato un proprio studente americano a trascorrere le vacanze con loro per trovare stimoli e ispirazione a scrivere la propria tesi.

Lo studente invitato quest'anno, Oliver (Armie Hammer), - cui Elio dovrà cedere la propria stanza da letto per posizionarsi nella stanza accanto – con i suoi modi aperti e confidenziali conquista subito tutti e crea un turbamento praticamente immediato in Elio, che ne è contemporaneamente attratto e respinto, fors'anche perché consapevole delle conseguenze di quest'attrazione.

Mentre la loro estate va avanti tra passeggiate in bicicletta, serate danzanti con gli amici sulle note dei successi degli anni Ottanta, dotte disquisizioni e citazioni ancora più dotte (e che non a caso in buona parte mi sono sfuggite), cene e pranzi in famiglia, gite fuori porta, bagni al lago e nelle fontane, ritrovamenti di statue classiche, tra Elio e Oliver si innesca una schermaglia che fin da subito prende la forma di una schermaglia amorosa, da cui entrambi a tratti si ritraggono per paura e insicurezza.

In una campagna padana assolata e luminosa che esprime una bellezza antica e quasi rarefatta, in un'epoca storica che il nostro occhio riconosce come un passato già lontano eppure ricco di echi molto familiari per la generazione di chi, come me, è nato negli anni Settanta, il perno attorno a cui ruota tutta la storia è Elio, interpretato da un Timothée Chalamet straordinario e ipnotizzante, insopportabilmente colto eppure incredibilmente empatico nel rappresentare le emozioni indefinite, confuse e a tratti spaventose di un diciassettenne, il senso di colpa e al contempo la forza di un'attrazione potente e pura come forse mai riesce a essere più avanti nella vita. Un'attrazione rispetto alla quale qualunque manovra diversiva – vedi la breve storia di Elio con la coetanea Marzia – è destinata a non avere successo e semmai a rafforzare il desiderio.

Però – al contrario di quello che si potrebbe pensare – questa storia, che pure ha al centro un amore omosessuale, non è un film a tesi e dei film a tesi non ha i principali stilemi. Non c'è tragedia all'esito della capitolazione dei due giovani alla reciproca attrazione, quella che li fa rispecchiare l'uno nell'altro come testimoniano nel chiamarsi col nome dell'altro, né c'è il trionfo dell'amore che esclude qualunque altra strada di vita. Esiste solo un amore intenso che per una estate spazza via tutto il resto e dà una gioia incontenibile e poi una tristezza altrettanto profonda nell'inevitabile allontanamento che la vita porta con sé.

È profondamente sincero il modo in cui Guadagnino rappresenta il rapporto di Elio con la propria sessualità nonché il modo intensamente fisico in cui si esplica l'interazione amorosa tra due uomini.

E però – a differenza di altri film sul medesimo tema – il mondo intorno non è ostile, nella misura in cui ognuno si confronta con la vita com'è, quella vita che può solo essere assecondata.

L'amicizia che Marzia offre a Elio è commovente, la presenza discreta – ma perfettamente consapevole - della madre è carezzevole, il discorso del padre a Elio alla partenza di Oliver è di quelli che colpiscono dritti al centro del cuore e che – come mi ha fatto notare la mia amica R. - è riuscito nell'intento di far ammutolire l'intera sala di un cinema di provincia, perché nessuno può a ragione sentirsene estraneo.

Non ho letto il romanzo omonimo di Aciman (conto di rimediare!), ma la sceneggiatura di James Ivory è contenuta e accogliente al punto giusto; i due inediti del grande Sufjan Stevens interpretano perfettamente lo spirito del film (e complimenti a chi ha scelto di coinvolgere proprio questo cantautore); Timothée Chalamet si esprime con le parole e soprattutto con il corpo in maniera così naturalistica da lasciare a bocca aperta.

Peccato solo non averlo visto in lingua originale. E lo so che questa apparirà una notazione da snob, ma in un film in cui si parlano lingue diverse – e non a caso, visto che la famiglia di Elio vive tra gli Stati Uniti e l'Italia, e padre e madre citano e traducono dal francese e dal tedesco –  nonché il dialetto locale, è un po' un peccato vedere tutto appiattito all'italiano.

Voto: 4,5/5




2 commenti:

  1. Ho visto il film di Guadagnino in versione originale e penso che tutti dovrebbero poterlo vedere in questa versione perché nel film si alternano in continuazione 3 lingue: inglese, francese, italiano. Il multilinguismo ha un significato. Il francese è la lingua usata da Elio con le donne con le quali ha i rapporti più stretti: la madre e l'amica Marzia (che è francese, nonostante il nome). La scelta dell'uso del francese per esprimere i rapporti con le donne potrebbe essere dovuta al fatto che la madre di Guadagnino è algerina. L'italiano è usato per parlare con la gente del posto e i domestici. L'inglese è usato per i rapporti importanti maschili: per parlare con il padre e ovviamente con l'americano Oliver (che a volte parla anche italiano). La lingua quindi è usata per evidenziare i legami specifici tra i personaggi. Ma allo stesso tempo tutti a tratti parlano una delle altre lingue: c'è una fluidità unica nel passaggio da una lingua all'altra. Questo è il vero film autenticamente internazionale.

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    1. Caro Pierfranco, grazie moltissimo di queste tue precisazioni che mi convincono ancora di più a rivedere il film in lingua originale. Molto bello questo uso delle lingue che di per sé veicola significati...

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