Born to lose / Nicoz Balboa. Roma: Coconino Press, Fandango, 2017.
Nicoz Balboa (nome d’arte di Nicoletta Zanchi) è "romana de Roma" e quasi morbosamente legata alla sua città, come è proprio dei romani, anche se vive da parecchi anni in Francia. È madre di una bimba, Mina, nonché tatuatrice, illustratrice, disegnatrice di fumetti, artista e molto altro.
Questo è il suo primo albo a fumetti pubblicato ed è un albo decisamente originale. Non si tratta infatti di un graphic novel come ormai siamo abituati a leggere, ma di un vero e proprio diario, disegnato e scritto su un’agenda Moleskine per almeno un paio d’anni.
E come tutti i diari è un racconto intimo e non solo; però anziché usare solo il flusso di pensieri (c’è anche quello), utilizza i disegni che rappresentano se stessa, la sua bambina, i suoi amici, i figli degli amici, i suoi amori e tutto il mondo che ruota intorno a lei.
Non so se Nicoletta è quella rappresentata qui; lei si lamenta di chi pensa di conoscerla attraverso il suo blog, e un po’ la capisco, perché nel mio piccolo accade talvolta anche a me. Diciamo che in tutte le nostre espressioni mettiamo una parte di noi stessi, ma è chiaro che ciascuno di noi è più complesso di così e non si esaurisce in quei pensieri e in quelle pagine, che hanno piuttosto l’obiettivo – più che di rappresentare compiutamente se stessi – di parlare a tutti e consentire ai lettori di scoprire una parte di loro stessi, di riconoscersi, di “risuonare” (come dico io) con alcuni pezzi di umanità dell’autore.
E, da questo punto di vista, secondo me Nicoz Balboa in questo diario riesce perfettamente a raggiungere l'obiettivo. Anche se non si è mamme, non si vive lontano dalla propria città e dai propri amici, non si è artisti, non si fa i tatuatori e non si ascolta la sua musica, ognuno di noi potrà riconoscersi nelle sue insicurezze, nei suoi momenti di piccola e grande felicità, nei suoi successi e insuccessi, nelle sue giornate no, nella sua volubilità, nelle sue paure, nel suo desiderio di essere amata e nella paura di rimanere sola, nel voler fare le cose giuste per sé e per le persone a cui si vuole bene e nel non riuscirci sempre né spesso.
È in questo modo che avviene quel processo di identificazione che inevitabilmente ci fa sentire la persona di cui leggiamo familiare e ci fa pensare di conoscerla da sempre, come un’amica di vecchia data, quando invece quello che abbiamo trovato è una parte di noi stessi. Gli artisti servono a questo: a renderci esplicite e universali delle cose che noi pensiamo essere solo nostre e su cui ci arrovelliamo sentendoci sbagliati, e che invece grazie a loro capiamo essere tratti caratteristici dell’umanità tutta, solo che di solito non entriamo nell’intimità degli altri così a fondo da poterli davvero vedere.
Il che poi non vuol dire che smettiamo di arrovellarci e di stare male, ma forse ci sentiamo un po’ meno soli.
Voto: 4/5
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