Stoner / John Williams; postfazione all'edizione italiana di Peter Cameron; trad. di Stefano Tummolini. Roma: Fazi Editore, 2013.
Stoner è un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1965, sebbene in Italia sia diventato un caso editoriale solo qualche anno fa e probabilmente molti di coloro che l'hanno letto – compresa io stessa - nemmeno sapevano che si trattasse di un testo scritto oltre cinquant'anni fa.
Non che questa informazione sia essenziale, ma in qualche modo colloca la storia del protagonista nella giusta prospettiva.
L'autore di questo romanzo ci racconta la vita di William Stoner, figlio di contadini del Missouri, mandato a studiare all'Università e rimasto poi lì a insegnare per tutta la vita. Sposato con Edith, che presto si rivelerà la donna sbagliata, ha una figlia di nome Grace, silenziosa e infelice. Al clou della sua esistenza e della sua carriera, è protagonista di una battaglia con il futuro direttore del Dipartimento che lo costringerà alla marginalità accademica per tutta la vita; a un certo punto si innamora perdutamente di Katherine Driscoll ma sarà costretto a chiudere la storia. Attraversa le due guerre senza colpo ferire, muore alle soglie della pensione da accademico, presto dimenticato da tutti.
Perché raccontare una storia così, una storia in fondo triste e banale?
Di solito, la letteratura, il cinema, il teatro si soffermano su storie in qualche modo eccezionali ovvero su momenti della vita delle persone che hanno un che di epico e significativo. Ci appassioniamo a queste storie perché ci ricordano che lo straordinario ci appartiene.
Tuttavia, l'effetto di questa scelta è simile a quello che si produce quando un fotografo isola un dettaglio della realtà, depurandolo da tutti gli elementi di disturbo, banali, ordinari, noiosi o fastidiosi. E così le piramidi ci appaiono in tutto il loro maestoso isolamento, perché nelle foto non vediamo l'agglomerato urbano non lontano e lo smog denso che lo copre.
Ebbene, è come se John Williams fotografasse la vita di Stoner senza eliminare nulla e la facesse emergere in tutta la sua verità, ordinaria, epica, noiosa, appassionata, infelice e insensata.
Se si fosse concentrato sull'emergere della passione di Stoner per l'insegnamento e sul suo testa a testa con Lomax per difendere i valori accademici sarebbe apparso un piccolo campione di integrità; se ci avesse parlato dell'innamoramento iniziale per Edith ne avremmo colto principalmente tutta la tenerezza; se avesse incentrato il racconto sulla bellissima storia d'amore con Katherine ne avremmo conosciuto in particolare la vitalità e la capacità di reagire a una vite triste e stanca.
Ma John Williams inserisce tutti questi momenti nel fluire della vita, dentro il quale essi prendono la loro giusta proporzione, si relativizzano e perdono la loro aura di epicità. E così il romanzo non è lo specchio deformante della realtà, bensì ci rimanda indietro il riflesso delle nostre stesse vite e di noi stessi, noi che forse siamo più combattivi, più fortunati, più coraggiosi di Stoner, ma in fine dei conti - guardati da lontano, e non in soggettiva - risultiamo altrettanto ordinari e piccoli e leggeri nel segno che possiamo lasciare su questa terra. Il che non è necessariamente una cosa brutta o deprimente, perché in qualche modo ci aiuta a relativizzare e al contempo a valorizzare tutto, che è poi in fondo la sfida a cui siamo chiamati.
La scrittura di Williams è perfettamente aderente alla sua scelta narrativa; appare a tratti noiosa, cadenzata, ordinaria per poi accendersi di tanto in tanto in corrispondenza dei momenti in cui la vita di Stoner ha un guizzo, assaporando i piccoli e grandi momenti epici che la caratterizzano.
Alla fine non ci si chiede se la vita di Stoner abbia avuto un senso, sia stata ben vissuta o altro del genere, ma si guarda con umana compassione e partecipazione a una vita come tante, a un uomo che ha cercato di viverla al suo meglio e a cui non possiamo non voler bene.
Voto: 3/5
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