Ed eccomi a un'altra mostra di fotografia, questa volta nello spazio espositivo dell'Ara Pacis. Non conoscevo Domon Ken, ma quando ho visto le presentazioni della sua mostra mi ha immediatamente incuriosita.
Ho scoperto così che Domon Ken è uno dei più grandi fotografi giapponesi e che, con le sue foto, ha attraversato buona parte della storia giapponese del Novecento, coprendo il periodo che va dagli anni Venti agli anni Settanta. Quella di Domon Ken è la storia di una vera e propria passione mai sopita per la fotografia, che ha superato anche i gravi problemi di salute del fotografo dopo la prima e la seconda emorragia cerebrale che lo hanno alfine costretto su una sedia a rotelle.
Le foto di Domon Ken sono anche il racconto emotivo del rapporto del fotografo con il suo paese: dalle fotografie di propaganda del montante nazionalismo giapponese degli anni Trenta al racconto della vita in Giappone attraverso le foto dei bambini (forse la sezione più bella ed emozionante della mostra), da i ritratti di giapponesi famosi alla testimonianza dell'arrivo delle mode occidentali, dalle scene di vita quotidiana alle immagini della forza dei sopravvissuti dopo lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima. Ma il percorso fotografico di Domon Ken alterna momenti di grande immersione nelle dinamiche sociali a momenti di altrettanto grande isolamento e meditazione che continuano a trovare espressione nelle fotografie, ad esempio con le foto sul teatro tradizionale giapponese dei burattini ovvero dei templi e delle statue buddiste.
Il suo percorso fotografico testimonia anche i progressi tecnici della fotografia, ad esempio l'avvento del colore, che Domon Ken adotta pur non abbandonando mai definitivamente il bianco e nero, nonché i rapporti dialettici con la fotografia occidentale e maestri quali Cartier Bresson e Doisneau che Domon cita, ma mantenendo intatta la sua autonomia e la sua poetica fotografica, che resta sempre profondamente agganciata alla cultura giapponese.
Una mostra fotografica originale e affascinante che ci permette di uscire dai terreni battuti e conosciuti della fotografia di casa nostra per gettare lo sguardo su un mondo lontano geograficamente e culturalmente, ma di cui pure attraverso la fotografia riusciamo a respirare e condividere il portato emotivo.
Peccato solo per il fatto che lo spazio espositivo dell'Ara Pacis - pur bello - non si presta totalmente a offrire dei percorsi lineari, e dunque il povero spettatore tende un po' a vagare negli spazi creati dalle pareti di cartongesso senza avere ben chiaro quale sia il percorso immaginato dal curatore della mostra.
Avete tempo fino al 18 settembre.
Voto: 4/5
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